mercoledì 12 novembre 2008

Il Premio Chiara

giudizio: un gioiello da rivendere?
"Nella nostra piccola città, allora ancora più piccola di oggi ma tanto più gradevole e umana, al tempo in cui cominciavo a viverci per un numero imprecisabile ma ormai stragrande di anni, cioè intorno al 1936, viveva già il commendatore Adamo Chiappini, un tenore in ritiro che i competenti di opera lirica ricordavano come una promessa, in parte mantenuta, del bel canto italiano". E' l'incipit di "Le corna del diavolo", uno dei tipici racconti di Piero Chiara: il lago di Como, il biliardo, la lirica, le storie e le figurette di provincia, un adulterio e qualche peccato veniale sono gli argomenti ricorrenti di molti dei suoi racconti. E il racconto breve, amaro, nostalgico e un po' stralunato, è la misura di Chiara, come lo è di molti suoi contemporanei e conterranei, penso a Buzzati per esempio o a un versante di Calvino.
Poco dopo la sua morte, il comune di Varese organizzò un concorso letterario a lui intitolato e a sua memoria, concorso che vive e vegeta tuttora. Sebbene il comitato d'onore del premio sia piuttosto infarcito di bauscia e nobilazzi locali (Mondadori, Albertoni, Missoni, Archinto, Crespi, Panza di Biumo eccetera), il fatto che il concorso preveda una giuria popolare rende onore all'iniziativa e alla memoria dello scrittore. Tra i vincitori del passato segnalo Piumini e Lodoli.
In generale, poi, i premi letterari hanno un significato di per sé se, uscendo dai salottini mondani intrisi di liquorini, riescono ad aiutare autori validi ad emergere e, soprattutto, a campare con dignità e un poco di soddisfazione. Per questo motivo, l'istituzione di una "sezione Giovani" nel 1998 sarebbe da salutare con favore. Sebbene scorrendo l'elenco dei passati vincitori in erba io non riesca a scorgerne uno che, in qualche modo, sia stato assistito successivamente da fama planetaria, un premio ai giovani scrittori trova significato anche nell'operazione insita, ovvero nella promozione di quell'attività a basso costo e ad alta intensità che è la scrittura.
E qui giungo alla doglianza del caso. Edizione 2008, sezione Giovani: primo premio, andato accidentalmente a uno scrittore con la "o" finale, uomo-masculo, un gioiello "DoDo" Pomellato. Secondo premio, un mini Hi-Fi. Terzo, una bicicletta. Quarto una valigia trolley, quinto e sesto una macchina fotografica, forse digitale forse no.
Ora, vivaddio: sebbene - ne sono conscio - sia sempre possibile rivendere un oggetto per ottenere un qualche grado di pecunia da reinvestire, non riesco proprio a comprendere un riconoscimento offerto a giovani scrittori che si manifesta in gioielli, valigie o amenità da anziani-che-cercano-un-regalo-giovane. Un tipo di gratificazione nord-imprenditoriale, immagino. E orrendamente paternalista, roba da tirargli il "DoDo" in testa.
Di certo, non riesco a immaginare la faccia del vincitore di quest'anno (sempre con la "o" finale) mentre riceve un gioiello "DoDo" Pomellato a testimonianza del suo valore e del suo sforzo come giovane scrittore. Dico io, una penna, tre risme di carta, un computer portatile, un'enciclopedia, sei dizionari, un abbonamento a una rivista del settore, una serata con Marco Lodoli, insomma non era possibile trovare qualcosa di più consono, inerente e utile? Anche una bella busta con la grana contante, forse, poteva andare, con l'invito - ovvio - a non berseli (risata dei bacucchi premiatori tutto attorno). No, invece no: un gioiello, uno stereo, una valigia. Il che, tradotto, significa grossomodo: scrivete per guadagnare e, se vi riesce, quando avrete via qualche soldino, compratevi un gioiello, uno stereo, una valigia ancora più grossi. Scrivere è un grazioso passatempo e, come tale, degno di ricompense voluttuarie. Per il lavoro vero, suonare i campanelli dei capannoni in Brianza.

giovedì 30 ottobre 2008

Vittorini e Rigoni Stern

giudizio: a buoni maestri servono buoni allievi.
Nel 1951 Rigoni Stern faceva l'impiegato all’Ufficio imposte del catasto di Asiago, Vittorini dirigeva la collana "I Gettoni" di Einaudi. Si incontrarono e fu il secondo a convincere il primo, illetterato ritroso, a scrivere i propri ricordi della campagna di Russia.
Rigoni si mise a scrivere mentre Vittorini lanciava alcuni giovani promettenti. Finita la prima stesura, Rigoni prese il treno da Asiago per Torino e portò il manoscritto a Vittorini. Vittorini glielo fece riscrivere da capo. Rigoni tornò indietro, lo riscrisse e tornò a Torino. Vittorini glielo fece riscrivere. E così una terza, una quarta, una quinta volta. Quante volte Vittorini fece riscrivere a Rigoni "Il sergente nella neve"? Otto. Dico: otto.
Rigoni pensò molte volte di lasciar perdere, non capiva bene l'insistenza e la cocciutaggine di Vittorini, forse aveva sbagliato lavoro, persona o casa editrice. Però riscrisse ogni volta il testo, un contadino di Asiago che ha fatto la Russia non è uno che si ferma di fronte alle prime difficoltà. Ma ancora non capiva fino in fondo dove Vittorini volesse andare a parare. Nel 1953, finalmente, Einaudi pubblicò l'ottava stesura de "Il sergente nella neve", vista, rivista, discussa e stravolta ennesime volte. Fu un successo. Ma questo non importa, fu solo allora che Rigoni comprese la cocciutaggine di Vittorini: ora era diventato uno scrittore. Uno scrittore vero, aveva imparato la lezione. A buoni maestri servono buoni allievi.
Cosa fece lo scrittore Rigoni a questo punto? A parte un piccolo episodio, non scrisse più nulla fino alla morte di Vittorini. Non era più un allievo.

venerdì 17 ottobre 2008

I tortellini bolognesi

giudizio: indescrivibile. Perciò ne scrivo
Non succede spesso di pensare "Cazzo, per 30 anni ho avuto un pregiudizio terribile e mi vergogno, come proverò vergogna per chi continuerà a pensare le stesse cose che pensavo io".
I tortellini. Un quadrato di pasta all'uovo con dentro un quadratino di ripieno a base di carne (di quest'ultimo sono infinite le varianti, una per ogni famiglia, ma di base dentro c'è della lonza di maiale, del prosciutto, della mortadella).
Esistono in due versioni, sostanzialmente: al sugo o in brodo. Al sugo sono quelli che per tutti noi sono sempre stati i tortellini, fondamentalmente confezionati (Rana, coop, Buitoni, tutti buonissimi, insomma, normali).
In brodo non li vuole praticamente nessuno, se non il cugino un po' sfigato o il nonnino di turno, che li mangia nel brodo di dado stracotti e disfati (come all'ospedale). Ecco perchè quando te li propongono in brodo pensi che faresti di tutto pur di non mangiare quella roba triste. Quando proprio non riesci ad evitarli, prima bevi il brodo, poi cerchi di condirli in qualche modo (ovviamente, ci versi sopra la formaggera del grana e abbondante pepe. Li ricondisci asciutti). No, che poi quelli "asiutti" (col ragù, al sugo di pomodoro, burro e salvia, o con pancetta e cipolla) sono tutti buoni. Seriamente, sono più che gradevoli, altro che! Ogni tanto ne hai proprio voglia. Niente tortelli, niente ripieno di zucca, ricotta e noci, ricotta e spinaci, no: carne. Parentesi: quelli panna-e-prosciutto-piselli-e-qualcosaltro no, quelli sono davvero terribili... Vanno bene a mensa e, se proprio non hai alternative, al selfservice...
Poi arrivi a Bologna, ci abiti 5 anni, li ignori così a lungo (appunto: beatamente) e una sera pensi va bene, proviamoli. Trattoria da Valerio in via Avesella 10 (per noi è praticamente il tinello, ma sotto casa. Ambiente più che famigliare: famiglia). E vai: "Per me i tortelini". L'ho detto. Voglio provare. Lo so: non li mangio in brodo da almeno 12 anni (li preparò mia zia). Ovviamente i tortellini sono, per chi non sa, fatti in casa (da una "Sfoglina", o dalla "zdora") e sono, ovviamente minuscoli (per chi sa: "al mignolo").

Che, chiaro, a Bologna, per un Bolognese, per Valerio, i tortelini sono (ovviamente) SOLO in brodo. Banalmente, non ne esiste una versione asciutta. Punto.
Ora, è impossibile descrivere una pietanza sublime. Sarebbe riduttivo e falso. E' anche difficile descrivere come ci si può sentire mentre si gustano. Ma è comunque facilissimo constatare che tutto quello che, comunemente da non bolognesi, si pensa a proposito dei tortellini-praticamente-solo-asciutti è assolutamente, inequivocabilmente, davvero sbagliato, anche se lo pensavi proprio tu.

Per la cronaca, il vero uomo bolognese si distingue perchè se gli dai da mangiare dei veri e buonissimi tortellini in brodo dice sempre: "Buoni, davvero buoni. Però quelli che fa la mia mamma..."
Che io possa avervi ospiti una sera a cena da Valerio, per vedere la vostra espressione incredula smontare i pregiudizi di un'intera civiltà sbagliata. Quella non-bolognese.
Per capire quanto contino i tortellini e chi li sa preparare, per i bolognesi, suggerisco di sfogliare (he he) la proposta di legge per la valorizzazione e la promozione della "sfoglia emiliano-romgnola" e del mestiere di "sfoglina/o"
http://www.grillini.it/show.php?2782

giovedì 16 ottobre 2008

I vicini di casa

giudizio: una torta avvelenata.
I vicini di casa sono, invariabilmente, dei rompicoglioni. Vuoi perché ascoltano musica etnica, o perché hanno orari balzani, o figli lamentosi, o automobili cafone, oppure perché fanno il bucato di notte o perché in casa stanno comodi con gli zoccoli olandesi. In pratica, perché esistono.
Secondo un ovvio principio di reciprocità, chiunque di noi è vicino di casa di qualcun altro, motivo per il quale chiunque di noi può essere ascritto alla categoria dei rompicoglioni. Perché a me piace ascoltare l'hard rock a tutto volume, cucinare molti quintali di cavolo e mettere la posta religiosa che ricevo nelle cassette altrui. Mi esprimo quasi liberamente, io non dò fastidio.
Non c'è scampo, da un punto di vista complessivo siamo tutti dei rompicoglioni, seppur con differenze non lievi. Nonostante alcune persone siano più che civili, l'eccessiva vicinanza crea danno: non sono certo che la visita iniziale con tanto di torta appena sfornata sia una dichiarazione di cortesia, quanto piuttosto una sarcastica dichiarazione di guerra futura. Prima o poi verrà l'assemblea condominiale. Visti dall'esterno, dunque, siamo una specie, tutta, che tende con una certa pervicacia a devastare l'ambiente circostante, persone incluse.
Soltanto in virtù di queste spiegazioni è possibile comprendere appieno l'iniziativa dell'Accademia russa di Scienze: poiché è stato scoperto di recente Gliese 581c, un pianeta molto simile alla Terra, sufficientemente vicino per essere considerato contiguo, dotato forse di aria e acqua, il professor Zaitsev - attenzione: a nome nostro - ha ben pensato di cominciare a inviare trasmissioni radioastronomiche in direzione dei Gliesiani, ammesso che esistano, informandoli delle nostre attività e caratteristiche più svariate, per esempio inviando immagini della campagna elettorale americana e spiegando che noi abbiamo un naso e il sedere tagliato in due. Le trasmissioni arriveranno a destinazione tra vent'anni e, secondo il tizio, si tratta di un «approccio democratico alle comunicazioni con gli extra terrestri».
Eccoci giunti, dunque, all'equivalente galattico della torta di buon vicinato: non invitati infestiamo il citofono, la cassetta di posta e il telefono dei nostri vicini, proponendo loro le nostre belle iniziative, facendogli vedere le foto dei figli e mostrando la nostra innegabile simpatia. Poiché loro non si fanno avanti, i timidoni (cito: «c’è sempre la possibilità che fra le varie presunte intelligenze extraterrestri prevalga un atteggiamento passivo, di preferire che per primi si espongano gli altri, piuttosto che manifestarsi subito»), noi siamo più disinvolti. E chi se ne frega se non potranno più ascoltare la loro radio preferita perché occuperemo le loro frequenze, non ci importa.
Siamo troppo simpatici, noi, per frenarci. Vicini di casa, appunto.

martedì 7 ottobre 2008

La scelta della sede.

giudizio: oltraggioso.
Che si sia un governo o un'industria, un partito, una casa di moda, un dittatore, un geometra arricchito o un ente statale, la scelta della propria sede risulta essere decisiva per l'immagine e il significato che si vuole dare all'esterno della propria azione. La cosa è più che nota, ai consci e agli inconsci, tant'è che nessuno si sottrae alla ferrea legge: una sede ammirata, riverita, imponente il giusto, trasmette direttamente a chi la sede la occupa ammirazione, riverenza, imponenza, garanzia di buona attività, quale essa sia. E non a caso, ancora, si sceglie spesso prima la sede del nome, o prima la sede di tante altre cose, solo apparentemente più importanti.
Eccezionali alcuni casi esemplari, nei quali la sede scelta è diventata sinonimo di ciò che vi sta dentro: La Santa Sede, sede per eccellenza e inarrivabile, o il Cremlino, il Pentagono, la Casa Bianca e, nel suo piccolo, il Quirinale. Oppure, in politica o in affari, Mirafiori, Piazza del Gesù, Botteghe Oscure, Palazzo Marino, l'8 di Downing Street e così via. In altri casi, la scelta della sede fu talmente azzeccata da riversare sugli occupanti caratteristiche virtuose non necessariamente meritate: ad esempio, il palazzo di vetro dell'ONU, oppure la sede lacustre dell'ENI all'EUR, simboli di modernità e di efficienza. E poi che dire delle sedi diventate leggendarie nell'immaginario collettivo? La Bat-Caverna, per esempio, o gli studi della EMI ad Abbey Road, con tanto di mela, oppure ancora la Moneda di Allende a Santiago, e che dire del deposito cubico di Paperone o della reggia di Versailles? Nel suo piccolo, anche il modesto ma significativo contribuente sceglie di costruirsi una sede adatta alle proprie ambizioni ed è per questo motivo che sorgono le villette neo-geometra su collinetta che nasconde parcheggio e taverna, a fianco del capannone dell'aziendina, nel panorama omogeneo della pianura padana. Insomma, scegliersi una sede adeguata è il primo passo per un successo durevole e robusto, ricco di gratificazioni e di entrate pecuniarie, non c'è dubbio.
E' alla luce di tutto questo che va vista la decisione di D'Alema di posizionare la sede della sua neonata RED TV (canale 890 di Sky, guidata dalla baledda Annunziata) nel seminterrato di Palazzo Grazioli a Roma. Il riverbero dei piani superiori, sia in fatto di politica che di televisione, garantisce la riuscita dell'impresa nei piani bassi. Bravo a D'Alema che ha compreso l'importanza di avere una sede adeguata alle proprie ambizioni. E poi potrà sempre chiedere consiglio all'inquilino del piano di sopra, oltre allo zucchero.

domenica 28 settembre 2008

A destra della cultura

giudizio: il fascista, la scrittrice e il cantante.
Passeggiavo sbadatamente per Roma una sera, quando sono stato rapito da luci e suoni provenienti da un colle. Giunto là, ovvero sul Campidoglio illuminato a gran gala, ho potuto assistere a un incosciente discorso di celebrazione in onore di Oriana Fallaci, tenuto ovviamente dal primo sindaco fascista di Roma. Ho così potuto apprendere che l'intera serata era dedicata all'iraconda Fallaci e il repertorio degli interventi (due) può essere così riassunto: otto sostantivi "coraggio, libertà, eredità, libri, scrittura, scrittrice, giornalista, Italia" e un solo aggettivo, "straordinario", declinato a seconda del genere. Il disagio e l'impreparazione erano palpabili, si celebrava postumo una specie di tumulo imbiancato riferibile all'area culturale di destra, ovvero un obelisco storto nel nulla del deserto, senza che si disponesse di qualche strumento apposito, per esempio qualcuno che avesse letto 'sti benedetti libri. Era un elogio vago e confuso, monoaggettivato, che potrebbe calzare ai caduti papalini di Porta Pia come alla Fallaci o a Tatarella. Magari si parlasse del camerata Ramelli. Esaurito il faticosissimo discorso, Alemanno si è seduto per gustarsi il fulcro della serata, un concerto-recital dell'unico cantante disponibile sulla piazza a celebrare la Fallaci: Amedeo Minghi. Califano sembrava oggettivamente una scelta poco culturale. E Minghi, per il quale non corre alcuna differenza tra la sagra del fagiolo lucano, San Remo e la Fallaci, ci ha dato dentro, con il medesimo repertorio di sostantivi e aggettivi, a ricordare la grandezza della stessa. Purtroppo, però, non avendo mai scritto nulla di adatto alla serata, ha dovuto ascendere specchi e cime impervie, pur di cantare le sue canzoni: "ho scritto questa canzone settantacinque anni fa, però è un po' come se l'avessi scritta per Oriana, perché parla di un'aquila che punta la preda, esattamente come faceva Oriana con la notizia, la osservava da lontano e la ghermiva con artigli rapaci". Per dire, poi ovviamente la canzone non quagliava per nulla. Alla quinta canzone non congrua, va ben pur il dovere di cronaca, mi sono osservato, io a un concerto di Minghi in una serata in onore della Fallaci: non quadrava e quindi me ne sono andato. Ho osservato un'ultima volta la platea, per fortuna andata semi-deserta, e mi sono allontanato, mentre i pochi si spellavano visibilmente le mani.
Questo è più un racconto che una recensione, lo so, sarebbe facile fare dell'ironia sullo iato tra il contenitore (Michelangelo, Roma) e il contenuto (Minghi, la Fallaci e un po' di fascisti), citare Leopardi e i suoi nani e giganti romani, sghignazzare sull'iniziativa sbilenca e malriuscita e sentirsi decisamente superiori, i fatti parlano da sè. Però resta l'amaro in bocca, una specie di rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, per tutti i desideri non avverati e per la fatica sprecata, per chi si è tanto impegnato e non ha ottenuto nulla. Anzi, la vicenda intera è beffarda. A dimostrazione, il secondo intervento, tenuto nascosto finora, era di Rutelli, lo sconfitto. Che, in quel contesto, ci stava davvero benino. E il cerchio è chiuso.

venerdì 26 settembre 2008

Della CEI o del significato dei nomi

giudizio: militanza onomastica.
Semplificando, da alcune decadi ormai la CEI risulta essere il braccio operativo dell'ingerenza pontificia nella politica italiana, per voce del suo segretario. Il segretario, appunto, di nomina papale, è il centravanti di sfondamento della politica vaticana, la politica concreta e pragmatica che punta alla parificazione delle scuole cattoliche, all'abrogazione della legge sull'aborto, alla promozione sociale ed economica degli oratori, alla difesa e all'implementazione dei privilegi conciliari e così via. In virtù del proprio ruolo, il segretario della CEI dice ciò che non sta bene che il Papa dica, non ha omologhi che lo contraddicano, utilizza parole e modi da combattimento e, caratteristica peculiare e necessaria, non conosce pudori e cortesie. Se il cardinale Ruini in questo era maestro indiscusso, e il cui nome faceva davvero pensare alle rovine che lasciava dietro di sè dopo i suoi interventi a gamba tesissima, il suo successore Bagnasco, un incoativo che richiamava più una certa disponibilità alla discussione che i fuochi e le fiamme ruiniane, da questo punto di vista non è stato all'altezza del predecessore.
Ora, se i nomi hanno un qualche significato, il reazionario e conservatore Benedetto XVI ha nominato ieri segretario della CEI monsignor Crociata, predestinato evidentemente a un ruolo in prima fila nella sempiterna lotta tra potere temporale e spirituale, tra cattolicesimo e resto del mondo. Nomen omen, pare evidente che gli interventi del neo-nominato saranno contraddistinti dall'elmetto in testa e da una certa propensione alla trincea militante, è bene non attendersi nulla di meglio. E' lecito un risolino per la scelta comica in ragione del nome, come si potrebbe fare un risolino del Manganelli capo della Polizia, ma esaurita la minima vis comica è bene attrezzarsi al peggio e serrare le fila, in attesa dell'ennesima Crociata.

lunedì 1 settembre 2008

La coca cola

giudizio: in 1996 battute.
Esiste un fil rouge che lega il cartello colombiano della cocaina e il Parlamento Federale Indiano, la CIA e i nutrizionisti, Vasco Rossi e i sindacalisti guatemaltechi, le fortune dei Bush e lo scandalo Telecom-Sismi, un fantomatico produttore in Indiana e l'osteoporosi femminile? E ancora: come narrano leggende ormai secolari, esiste un prodotto che, allo stesso tempo, smacchia il sangue dalle magliette, scioglie un'intera bistecca di manzo, toglie il chewingum dai capelli dei pargoli, neutralizza il veleno di una medusa, leva la ruggine dai bulloni ossidati? La risposta, singolare e laconica allo stesso tempo, è: "Sì, la Coca Cola" e si intenda qui sia la bibita gasata sia la perfida multinazionale. Ed è in questa sofisticata distinzione, l'innocente bevanda dalle bollicine sbarazzine da una parte e la fabbrica malvagia che, si dice, disfa governi e acquisisce droga dall'altra, che sta tutta la magia: nessuno, mai, riuscirà a colmare la distanza, concettuale e concreta, tra la prosperosa pin up che invita alla molle digestione e il distributore automatico che operai desindacalizzati hanno portato in luoghi in cui l'uomo bianco nemmeno si sogna di andare. Troppo sovradimensionata l'azienda per non incappare in soprusi e reati di varia natura, troppo diffusa e accessibile la bibita per non finire, almeno una volta, sul tavolino di una festa delle medie. E se il consumo di Coca Cola è da sempre trasversale, da destra a sinistra senza distinzione, anche il rifiuto di essa, simbolico e ideologico, non conosce frontiere: dall'invito a consumare l'italico e fascistissimo chinotto ai CCCP, che le dedicarono ironicamente la copertina di un album doppio. Sebbene i trionfi dei gasati anni Ottanta siano un ricordo lontano, il primato non è in discussione: impossibile per i rivali spodestare la Coca Cola, tuttora insostituibile persino in alcune discipline sportive, come testimoniano soddisfatti i partecipanti al Campionato italiano di rutto parlato e cantato di Reggiolo.

lunedì 25 agosto 2008

Maratoneta

Giudizio: inarrestabile
Hai perso.
Non puoi illuderti, non ci sono altri finali, non inventare, hai perso.
Hai iniziato a perdere quasi due ore fa. Hai iniziato perdendo la sensibilità. Prima alle dita dei piedi, poi agli stinchi, ora anche alle dita delle mani. Non sentire il dolore ai piedi può essere un vantaggio, può portarti più avanti, più degli altri. Poi hai perso anche il ritmo, il glicogeno, la capacità di sentire il tuo respiro, hai perso la capacità di capire il tuo battito, di interpretare il significato vero delle letture sull'orologino che hai al polso, o quello che ti dice qualcuno (un volto amico?) dal lato del percorso. Realizzi che qualche minuto fa (o qualche quarto d'ora fa) hai anche perso il rifornimento...
Perso. Ora sei davvero perso. Non sai nemmeno dove devi davvero andare. Avanti, ancora avanti, è l'unica cosa che sai fare, adesso, da sempre. Correre.
Un suono ovattato che dovrebbe venire dalle tue orecchie ti sta riempiendo la testa, senti solo un brusio sordo, un tuono lontano dentro di te, come un temporale che non nasce mai, e non vuol nemmeno morire, neppure in mezzo alle voci lontane del pubblico che ti scorre a un palmo, di fianco, apparentemente divertito (?) dal tuo passare. Non senti più nulla, solo questo ovattato silenzio ammutolito, unico sintomo della tua trance agonistica.
Il vuoto, dentro e fuori da te. Vuoto. Corri. Senza sensibilità.
Poi si fa fresco. Ombra, tanta ombra. Saliscendi. Silenzio. Più silenzio. Singole voci, di qua e di là, ma manca il pubblico. È buio. La fine.
Andato. Sei finito, in un tunnel che ti porterà al coma. E lo stai capendo solo ora... Sei perso. Per sempre.
Dietro il tunnel uno stadio gremito, pieno di persone stipate fino all'orlo, sta aspettando in un silenzio irreale, sospeso e rispettoso, l'ingresso del primo maratoneta, per accompagnarlo nel suo ultimo giro di pista. 500 metri. Gli ultimi cinquecento metri.
Al suo ingresso, il silenzio è al culmine, puntiforme. E fatti i cinque passi in uscita dal tunnel, sulla corsia che porta alla pista olimpica, un boato immane, un'esplosione umana e primordiale rompe quel silenzio irreale.
Ti risveglia, ti dice “no, non sei perso, sei arrivato fino a qui!”. E ti piomba addosso tutto il peso di 42km percorsi metro dopo metro. Un macigno, una mano enorme sembra volerti schiacciare sul tartan, per non farti arrivare alla fine. Proprio ora che manca così poco... Ma l'emozione è troppa. Sei stato insensibile, perso, per decine di chilometri, e ora che ti mancano meno di 500 metri, un banale giro di pista (roba da fighetti dela velocità), questa fresca consapevolezza ti sta facendo rallentare a vista d'occhio. Sei perso, un cavallo scosso, sai che non puoi arrivare alla fine. Hai perso.
Ma in quel boato irrequieto e interminabile trovi (davvero? Ne sei sicuro?) l'ultimo barlume di forza, un alito di vento minimo, che si appoggia su una vela flaccida e ti trasfigura, per farti arrivare, è vero!, davvero alla fine. Colmi quella distanza, un ultimo passo dopo l'altro, e non sai più chi sei: se importasse qualcosa, hai gli occhi a mandorla, la pelle scura, chiara, sei americano, africano, europeo, italiano, etiope, sei il campione, sei uno sconosciuto, hai le scarpe scelte dallo sponsor, corri a piedi nudi, sei lucido, sei fatto, sei un volto noto, sei l'ultimo, sei il primo. Sei uno dei tanti. Sei solo un'emozione immensa.

domenica 24 agosto 2008

Offlaga Disco Pax dal vivo

giudizio: mia figlia la chiamerò Tundra.
22 agosto, festa di Radio Onda d'Urto, gli ODP e io. Esborso: minimo, cinque euri. Formazione: cantante, chitarrista e bassista/tastierista/campionatore. Nessuna scenografia, un leggio e qualche feticcio qua e là. Concerto topograficamente sensato, gli Offlaga DP si avvicinano a Offlaga.
Musicalmente inesistenti, il senso di tutta la faccenda sta, ovvio, nei testi, bisogna concentrarsi e seguire arrendevoli le storie, ad alto tenore politico, veri e propri racconti conclusi a volte magistrali a volte più intimini e ritorti. In genere, eccellenti. Domanda retorica: chi ha la buona volontà, oggi, di cantare contro i sentimenti di Francesca Mambro ("Giusva era il ragazzo più sensibile che avessi mai incontrato"/Che razza di tipacci fossero gli altri ragazzi che aveva frequentato/non ci è dato sapere), o celebrare un ventralista russo (La vittoria di Vladimir fu un eroismo da Terza Internazionale/una misura strappalacrime ottenuta dall'ultimo grande/ventralista della storia) o, ancora, certi commerci giovanili mai del tutto tramontati (un pompino in cambio di un Toblerone/i condomini I.A.C.P. negli anni '80 di una città filosovietica riservavano economie alternative molto convincenti)? Poiché il tempo passa e l'URSS si fermò nel 1991, gli ODP appaiono un pochino bolsi in quanto a età e adipe, la riga a sinistra del cantante suscita la stessa irritazione che provai per il mio vicino di banco pluri-bocciato e omnisciente, l'età media del pubblico fa sì che solo io e un altro ridiamo sentendo il verso "Un ricordo dell'amore sconfitto marca Defonseca". Da antologia e da mandare a memoria "Onomastica", lettura dei nomi della guida del telefono di Parma, tra cui spiccano Mosca, Tundra, Inglis, Yuri e una miriade di meraviglie. Divertissement da trivial in edizione vetero-comunista? Può essere, datevi la risposta da soli. Leggete questo verso ("Il desiderio del caparbio crostaceo di uscire dal suo lago per combattere il pensiero dominante è infatti una delle forme più originali di resistenza conosciute, un simbolo della lotta per l’autodeterminazione contro un sistema che chiama ambientalismo quella che in realtà è un’imbarazzante difesa degli status quo") e osservate le vostre reazioni. Io ho riso, ma mi ha toccato nel vivo.

martedì 5 agosto 2008

Una giornata particolare

Giudizio: applauso

Gli ingredienti sono sempre gli stessi, il 2 agosto a Bologna, più o meno come ogni anno in altre sciagurate piazze italiane.

Se il 25 aprile finisce che piove quasi sempre, il 2 agosto c'è sempre caldo, un pesante caldo estivo, che toglie il respiro e fa grondare. E alla stazione continuano ad incrociarsi il popolo dei vacanzieri in transito, chi aspetta un parente, gli anziani persi in cerca del binario.

Il 2 agosto, a Bologna, arriva un momento che prende tutto questo e lo congela, ti tiene inchiodato lì, a nonvedere (ma proprio con i tuoi occhi) quello che è successo e che, sempre, lascia tutti nello stesso modo: soli.

Gli ingredienti sono sempre gli stessi: il caldo, chi transita, chi si appoggia alla bicicletta per chiacchierare un po', le bandiere, i “per non dimenticare” e i “perché non si ripeta”, il sindaco, i gonfaloni, il rappresentante di un governo poco amico (e relativi fischi, e mezza piazza che se ne va, compostissima, alle sue prime parole, una città che continua a muoversi intorno, gli occhi lucidi di qualcuno che ascolta chi era lì quel 2 agosto, la voce dei familiari, di chi ha continuato nonostante tutto, da solo.

Il 2 agosto a Bologna tutto questo viene congelato, nel trucido caldo del piazzale delle Medaglie d'oro, per un minuto. Silenzio.

Un silenzio vero, intenso, civico e profondo, il silenzio di una città, concentrato nel buco nero della Stazione di Bologna. Un minuto in cui succede che si sta fermi, e ci si stringe insieme. Chi da solo, chi in compagnia, chi in gruppo. Chi passa per di là si ferma, scende dalla bicicletta, si congela. Se qualcuno fa brusìo molti si sacrificano e assolvono al dovere di richiamare al silenzio, chiedendo il rispetto di quel vuoto.

In quel minuto annunciato dal fischio di una locomotiva, tutto si ferma, anche il battito cardiaco dei presenti. Affiorano ricordi, irrompono immagini terrificanti, provi odio per chi ha voluto questo minuto di silenzio, alle 10.25. Senti di tutto, dentro, in quel minuto: il botto, il silenzio che lo rende vero, le urla, le sirene, le grida dei soccorritori, chi chiede il silenzio per sentire (forse!) un respiro sotto le macerie, il suono del sangue che sgocciola dagli autobus usati come ambulanze, senti il sudore dei pompieri e di chi, dentro questo caldo, tira fuori chi non c'è più, lasciandoci il vuoto di un edificio scomparso.

Senti tutto, anche se non c'eri. È impossibile evitare 85 morti, il 2 agosto 1980, a Bologna, quando sei caduto dentro a questo silenzio.

Un minuto di silenzio, e quando finisce (fischio di locomotiva) capisci che tutti, intorno, ogni presente, ha vissuto quel minuto, l'ha passato come te, senza sentire più il caldo e rapito dalle stesse immagini. E allora, al sessantaseiesimo secondo si crolla, sotto il peso di un minuto di silenzio. E irrompe un applauso, L'Applauso. Enorme, stonato (applaudire chi? cosa?), lungo che non finisce più, umano e necessario, un applauso civile. Non si dovrebbe applaudire mai, si dice, ai funerali, ed è vero. Ma qui anche se fosse un funerale, lo senti diverso. Arriva come una liberazione inutile ma inevitabile. Non se ne va, quel minuto, non se ne esce mai per davvero.

Da quando ci sto, cerco di esserci sempre, in questo giorno, a Bologna.


venerdì 6 giugno 2008

Il divo

giudizio: un tipo di cinema che sappiamo fare.
Dieci anni della vita politica e privata di Giulio Andreotti ovvero come è possibile fare un film su Andreotti senza diventare il Bagaglino.
Il film è strepitoso, meglio dirlo subito, girato in modo magistrale e mai banale, non concede nulla alle cretinate che da una vita danno il pane a Forattini e prende in considerazione dieci anni della vita politica e privata di Andreotti, dal 1991 al 2001, gli anni della grande sconfitta. Toni Servillo è al livello del migliore Gian Maria Volontè dei film politici e interpreta i toni monocorde del grande battutista senza mai scivolare nell'avanspettacolo, come sarebbe facile.
Il film, com'è giusto e sensato, non risolve nulla, lascia del tutto aperta la questione se il senatore sia il grande vecchio diabolico della politica italiana o un uomo cinico e sprezzante, dotato di sufficiente intelligenza politica. Propone però un'interessante chiave di lettura della figura di Andreotti, vale a dire un uomo di umili origini proteso con tutte le sue forze verso il riconoscimento culturale più che verso il potere in sé stesso, anche se la cosa - realisticamente - fa un po' a pugni con gli impresentabili, Pomicino, Sbardella, Ciarrapico, della sua corrente.
Due scene sopra tutte (il presunto bacio appiccicaticcio con Riina, Andreotti e la moglie che guardano Renato Zero alla televisione con reciproco scambio di affetto) e una battuta, tra tante: "E' pur vero che nostro Signore ci raccomanda di porgere l'altra guancia ma è altrettanto vero che, saggiamente, ci ha dotato di sole due guance". Unico neo, tecnico, del film: le scritte esplicative in rosso, che senza dieci decimi e un cinema ad alta risoluzione risultano francamente illeggibili. Averne, di film così.

domenica 30 marzo 2008

Il packaging dello yogurt

giudizio: croce e delizia
Apri il frigo e prendi uno yogurt. Alla fragola, alla banana, ai cereali, magari magro, o al bifidus-chefacagare, o super-acido che ci metti lo zucchero come da bambino.
Ma prima di affondare il cucchiaino nel delizioso latticino devi superare l'Ostacolo. Aprire il coperchietto, il maledettissimo cappuccio di alluminio. Maledetto perchè, soprattutto se chiude un bicchierino in plastica, non c'è una volta che si non rompa. Non viene mai via intero. Mai.
Ora, va detto che ed è un piccolo capolavoro di minmalismo, il packaging dello yogurt: un contenitore-coppetta di plastica (o, meglio, di vetro), un cappuccio di alluminio che lo chiude grazie a un micro-filo di collante, e poi a due a due, le coppette stanno in un coso di cartone (meglio sarebbe evitare il cartone e consentire di comprare anche 1, 3 o 5 yogurt, magari tutti di gusti diversi e non sprecare carta!). Capolavoro anche di riciclo, perchè ogni elemento se ne può andare in un cassonetto/campana differente e non si butta proprio nulla.
La tecnologia per produrre i cappuccetti di alluminio si è evoluta tantissimo (conosco uno che conosce uno che ha fatto i milioni costruendo queste macchine sofisticatissime), e lo spreco del prezioso elemento è oggi minimo. Bene! Ma perché, dico perchè, o-g-n-i v-o-l-t-a che ne apri uno non viene mai via intero? L'unico modo per riuscirci è farlo con estrema cura, con applicazione certosina e il sangue freddo di un artificiere che disinnesca la bomba (filo rosso o filo nero? è sempre nero il filo). E come l'artificiere, ora che hai finito, sei sudato ma salvo perchè hai vinto tu e la bomba non è esplosa e lo testimnonia il fatto che hai la spoletta in mano, ebbene ora, di sicuro, ti è passata la voglia di mangiarla, la bomba...

giovedì 20 marzo 2008

molti gradi di separazione

giudizio: separazione assoluta dalla decenza.
Giuliano Ferrara, tutto preso nell'orgasmo della sua crociata, scrive con la solita levità che all'ingresso delle cliniche nelle quali si pratica l'aborto clandestino dovrebbe campeggiare la scritta "Abort macht frei", richiamando tetri precedenti. Un lettore (lui sì intelligente, richiamato ieri in prima pagina su il manifesto da Luttazzi) gli fa notare che in tedesco "aborto" si dice "Abtreibung" e che "Abort", piuttosto, significa "latrina". Che la latrina renda liberi è fuor di discussione, come già sapevano Rabelais e Benigni su tutti. Ferrara no. Il commentatore comune, interpellato in merito alle vaccate di Ferrara, risponde che, comunque, "Ferrara è molto intelligente", il che implica che se dice cose immonde ci dev'essere una ragione non secondaria. Suo padre, lui sì che era intelligente, tutt'altra levatura dal volgare figlio che non è talis. Però il luogo comune sulla (presunta) intelligenza di Ferrara resiste, fin dai tempi in cui usciva da un bidone della monnezza. Anche di fronte alle contraddizioni insormontabili: la Chiesa si rifiuta di battezzare i feti deceduti prima del parto, poiché - fatto davvero interessante - non li considera persone. Non c'è vita prima del parto, dunque? E allora?
La volgarità, più che lo scivolone lessicale, mi mette in imbarazzo, mi lascia interdetto senza una replica immediata. Ma il grassone no, non conosce fermate, lanciato com'è alla meta, forte del suo personalissimo senso del giusto e del sacro, cucito su misura. Lui è sereno e, di sicuro, dorme benissimo.
Le parole, per qualcuno, non hanno alcun peso.

domenica 16 marzo 2008

pubblicità progresso

giudizio: il lato nobile delle jene?
Se lo scopo della pubblicità è di influenzare, in modo intenzionale e sistematico, le scelte degli individui in relazione al consumo di alcuni beni e all'utilizzo di alcuni servizi, ne consegue indirettamente che tale scopo viene perseguito a prescindere dal bene o dal servizio promosso, poiché diventano determinanti la tecnica, la struttura e i modi della comunicazione pubblicitaria. Che sono sempre gli stessi, in sostanza, sia che si pubblicizzi profumo per cani o villette a schiera sulla luna, e - in generale - tendono alla semplificazione, appellandosi a pulsioni elementari; estremizzando, Bernanos sosteneva che i motori di scelta della pubblicità sono semplicemente i sette peccati capitali. Non a caso, l'idea futurista di Marinetti, concreta e fascistoide, si adattava benissimo al concetto di pubblicità (sintesi, dinamismo, simultaneità etc.).
Lo stesso tipo di comunicazione pubblicitaria viene utilizzata anche nelle campagne di Pubblicità Progresso, il cui scopo è promuovere della comunicazione sociale in ambito morale, civile ed educativo, senza fine di lucro. Il che farebbe pensare a un nobile scopo e a un nobile risultato.
Ma così non è o, almeno, non del tutto. Pubblicità Progresso non è un sinonimo generico di "pubblicità sociale", ma è il nome di un'associazione (ora fondazione) che raggruppa praticamente tutte le agenzie pubblicitarie italiane, cioè le stesse che fanno comunicazione profit e si occupano di pubblicità in modo tradizionale, tra le quali Publitalia 80 e Sipra (cioè Mediaset e RAI, 90% del mercato pubblicitario). Ne deriva che l'idea di comunicazione e i mezzi espressivi che vengono utilizzati nelle campagne sociali sono sostanzialmente gli stessi utilizzati per vendere caffè o mutande. Ma se la riduzione, la semplificazione, il cliché e il luogo comune vanno benissimo per vendere un'automobile, non vanno altrettanto bene per promuovere comportamenti meritevoli e civili o per fare informazione disinteressata. Per esempio, la pubblicità progresso sull'AIDS del 1987 diceva testualmente "il virus si trasmette attraverso i rapporti sessuali e non i rapporti umani". Complimenti. Ovviamente, più l'argomento è complesso più la riduzione a pubblicità diventa difficile, capita quindi che una mente di pubblicitario, organizzata per vendere lattine di birra e parlare bene della diarrea, corra il rischio di non cogliere la differenza. Oppure, a volerla vedere del tutto nera, fare comunicazione sociale è un buon modo per promuoversi, marketing funzionale per guadagnarsi, di ritorno, contratti profit. Son sempre pubblicitari, in fondo.
In sostanza, recensisco con pollice verso la pubblicità progresso e condanno, insieme e in generale, la semplificazione affidata ai comunicatori, lasciando però un piccolo margine di credito in tutto questo, perché una tantum ci azzeccano davvero. Ecco due esempi: la migliore pubblicità progresso di sempre e una pubblicità progresso del tutto patetica, tra le tante.

martedì 11 marzo 2008

necropoli

giudizio: un libero pellegrino.
Boris Pahor, sloveno di Trieste, novantacinque anni, arruolato nell'esercito fascista, poi partigiano nelle formazioni slovene, internato in vari campi di concentramento, poi scrittore senza remore, forse candidato alle prossime elezioni nel PD. Un simbolo di una scatola cinese di minoranze, uno sloveno schiacciato tra titini e italiani (non brava gente ma fascisti), tra tedeschi e socialisti sloveni. Nel 1966 scrisse, in sloveno, "Necropoli", racconto autobiografico di addetto ai forni crematori, ignorato per più di vent'anni dalla storiografia e letteratura concentrazionaria. A colpevole torto, perché Pahor scrive incredibilmente bene e, a differenza di molti sopravvissuti, va a fondo delle cose, vuole sapere perché, si interroga e offre risposte, non si risparmia e non risparmia nulla al lettore, non risparmia parole e non risparmia sonori schiaffoni. "Necropoli" è il racconto della sua visita da uomo libero a Natzweiler-Struthof, campo di concentramento sui Vosgi, il suo primo campo: i ricordi riaffiorano, osserva i comportamenti dei turisti (due, addirittura, si baciano davanti alle camere a gas) e le proprie reazioni (lui li vede e non si indigna, ci pensa), ricostruisce il passato e, come ho detto, offre spiegazioni approfondite senza fermarsi di fronte a nulla. Uomo perfettamente integro di fronte alla realtà, è ammirevole da ogni punto di vista. E il suo romanzo è un unicum nel genere, non avevo mai letto nulla del genere sull'olocausto, nulla di così criticamente libero, di così approfondito, nulla di così analitico. Ecco, l'analisi è il punto, e proprio perché ragionata e pacata è una lama di rasoio e non lascia scampo. Per quasi tutti i sopravvissuti all'olocausto, la liberazione non è avvenuta con l'uscita dai campi, se non quella fisica. Per quasi tutti, la liberazione dall'orrore non è arrivata mai. Da Pahor, invece, ho imparato come osserva il mondo un uomo davvero libero, che ha resistito su ogni fronte. Sta a Trieste, andiamolo a salutare, è un uomo raro e prezioso.

giovedì 21 febbraio 2008

ma non faceva il poeta?

giudizio: sarà una campagna elettorale lunghissima.
Pochi minuti fa, l'uomo-scorreggina Bondi ha detto testualmente: "I candidati alle elezioni nel PDL non debbono avere procedimenti penali in corso, tranne quelli di origine politica".
Svolgimento: non vuol dire assolutamente, incontrovertibilmente, stupefacentemente, nulla. Nulla dal punto di vista penale, nulla dal punto di vista etico, nulla dal punto di vista linguistico (concordanze alla carlona, perlomeno). Politicamente sì, qualcosina significa, e tutti abbiamo chiaro cosa. Infatti, detto questo, anche Giuda sta meditando la candidatura al Senato.
L'unico motivo per cui cito l'homo miserrimo è questo: tempo due settimane e Veltroni ha sparigliato tutte le carte, ha rimesso in piedi il tavolo e a destra sono costretti a rilanciare di continuo, facendo fare i distinguo a Bondi, povero mona. Checché se ne pensi di Veltroni ora e in futuro, questa volta sciapò.

martedì 19 febbraio 2008

indice di gradimento

giudizio: vittoria senza discussioni nella meteorologia.
Il sole, inutile dirlo, fa godere grandi e piccini. La pioggia ha i suoi estimatori, specie se la si osserva al caldino e al riparo. La nebbia, uguale, ha un suo fascino, tra i poeti e gli osservatori. Il vento scombussola tutto e, in generale, è bello che ci sia. La neve riscuote un successo indiscusso. La foschia mattutina o serale può essere interessante. Le aurore boreali suscitano ammirazione. Gli arcobaleni accendono la fantasia di chiunque, anche senza la pentola di monete d'oro. I tornado e i cicloni, al di là dei danni, sono affascinanti e colossali da vedere. E la grandine? La grandine rompe i coglioni a tutti. A tutti, anche a chi non è un agricoltore o un concessionario di auto.
Si decreta, dunque, dopo breve dibattito, la concorde vittoria della grandine su tutta la linea, senza incertezze.

lunedì 18 febbraio 2008

la neve dove uno non se l'aspetta

giudizio: περβακκο!
Sotto la pergolina, con il bicchiere di ouzo nella destra e la fetta di feta nella sinistra, discorrendo di filosofia, ovvio, i partenonidi si sono scoperti sotto la neve, ieri. Ed hanno esclamato di certo: "περβακκο! καζζαρολα!".
Che meraviglia quando nevica dove non dovrebbe, che per due centimetri di neve le città vanno in tilt, le scuole chiudono per sempre, il governo decreta lo stato di emergenza, le persone si scoprono sprovviste di mon-boot infradito ma escono tutti di casa lo stesso, per vedere da vicino la neve. E noi, lontani, tutti qui a fare: "oooh, nevica ad Atene!".
Nei nostri bar, gli uccelli del malaugurio attaccano la tiritera che il clima sta cambiando (ma non doveva fare caldo?), ma nulla capiscono, è solo neve e serve a fare le palle, non tutti ce l'hanno. Tutti prima o poi vedono piovere dal cielo la pioggia, il sole, la grandine, le rane, gli aerei da caccia americani, i satelliti russi, ma la neve non è detto. Ed è fantastico, e appropriato, battere le mani contenti e dire: "oooh, nevica ad Atene!". Viva la neve dove uno non se l'aspetta, viva tutte le cose che uno non si aspetta, viva il disordine e viva le sorprese. Che, in questo caso, si piglia la slitta e quasi ci si scorda dei colonnelli.

mercoledì 6 febbraio 2008

cosa usiamo come slogan?

giudizio: can't do any of that / with out a hat.
Era il duemila, c'era il congresso della Quercia e funestava i giornali e i manifesti l'«I care» del segretario Veltroni, a metà tra un sapone intimo e un kennedysmo d'accatto. Molti commentatori dissero la propria, uno per tutti Serra in Lenin o Lennon? e ci si divertirono parecchio. Poi andò come andò. Oggi, otto dico otto anni dopo, Veltroni storna il «Yes, we can» di Obama, che nella versione nostrana starebbe per «possiamo vincere» e non, invece, "ehi, possiamo cambiare le cose, il mondo, le persone", troppo americo-democratico, forse. Inventare, mai.
Comunque, i due termini lessicali e temporali fanno venire in mente alcune considerazioni sparse. Primo, ci sono voluti otto anni, ma c'è riuscito, è finalmente passato dal singolare al plurale, sempre prima persona, così che adesso ci sentiamo inclusi (quasi) tutti. Secondo, se otto anni fa lo pigliarono abbastanza per il culo, me compreso, per l'anglofilia del tutto superflua, oggi nessuno ha fiatato, o tempora o mores. Terzo, fu allora che nacque l'idea di buonismo veltroniano, non del tutto campata per aria, idea che oggi pare davvero dissolta nel senso di crisi collettivo, che bada a sopravvivere e a farcela ("we can, dai che ce la"). Quarto, Veltroni pare un appassionato delle mezze frasi, cui si può aggiungere di volta in volta l'oggetto o il verbo: «Io ho a cuore» la fame nel mondo, tua mamma, il destino delle api, il funzionamento delle siviere nelle acciaierie etc.; oppure, «Sì, noi possiamo» vincere, perdere, pareggiare, spaccarci la faccia, andare al tuo funerale, cioccolare la città etc. Trucco da politico scaltro? Boh, avesse coniato un "Yes, we can smerd Berlusconi", magari andava meglio, chissà. O un funereo "Yes, we can-dle in the wind", mah.
Comunque sia, sono giochetti, si tratta di trovare il modo meno masochista per arrivare al 14 di aprile, possibilmente ancora in piedi. Purtroppo per me, da quando ho sentito il «Yes, we can» di Obama, non riesco a non pensare alla canzone «Yes, we can», che diceva che potevi forse farti un bagno, andare in bicicletta, parlare ad alta voce, farti un enorme sandwich nel bel mezzo della notte, ma di certo non senza un cappello («But you can't do that / No you can't do that / No you can't do any of that / Without a hat»), se ci penso mi fa ancora ridere.
Forse ci serve un cappello, forse a Veltroni serve un cappello, io penso serva sempre un cappello. Ce la faremo? Chissà, comunque, la canzone era dei Muppets. Speriamo non lo scoprano.

mercoledì 30 gennaio 2008

sputare

giudizio: chi ha dentro amaro, non può sputare dolce.
Sputare, si sa, non è mai una bella cosa, sia che si sputi nel piatto in cui si mangia sia che si sputino sentenze o veleno. Oppure, più semplicemente, che si sputi per davvero, mandando fuori per bocca. Solo sputare sangue o un rospo spinge a compassione. A parte una breve fase adolescenziale, tipicamente maschile, nella quale chi riesce a sputare compatto, lontano e con precisione è degno della riverenza assoluta di chi gli sta attorno, in età adulta il gesto è disdicevole. Anche in caso non lo si faccia apposta e si alternino parole e sputacchi nell'enfasi del discorso. Oggi, pare sputino solo gli immigrati, cinesi in rilevanza, il gesto è ritenuto del tutto superato e demodé, causa anche la scomparsa del tabacco da masticare. Non era così, naturalmente, un tempo: sui tram di Milano esiste ancora l'avviso di non sputare (sputavamo nei tram!), come in alcuni luoghi pubblici, e la sputacchiera nei bar è una nostra, disgustosa memoria non ancora troppo lontana. A margine, chi la svuotava?
Oggi l'atto dello sputazzo, non a perdere ma contro un avversario, è ancora praticato in luoghi ad esso adibiti: lo stadio e il parlamento. L'elemento determinante è questo: lo sputatore non è solo, fa parte di una squadra di calcio o di un partito o di una corrente di partito, ed esprime il suo incontenibile disprezzo sullo sputato, che a sua volta è - di solito - l'espressione di un'entità collettiva. Nel calcio, si può sputare all'arbitro, atto quasi legittimo, o a un avversario ma mai, mai!, contro un compagno o sulla maglia della propria squadra. In parlamento, al contrario, lo sputo contro un avversario è quasi scontato, molto più interessante e valoroso sputare contro un compagno di partito, reo di sconce nefandezze. Comunque vada, lo sputatore troverà sempre una qualche forma di consenso, anche sussurrato o dissimulato. In generale, poi, è sufficiente raggruppare un buon quantitativo di maschi in un luogo angusto perché, prima o poi, parta uno sputo. Nella Smorfia napoletana, sognare sé stessi mentre si sputa equivale al numero 84 e rappresenta la prospettiva di un lavoro molto faticoso. Sognare di ricevere uno sputo, il 13.
In definitiva, resta la nostaglia per i bei tempi in cui ci portavano allo zoo ad ammirare il lama, l'unico, vero, altezzoso sputatore per natura. Che invidia.

mercoledì 9 gennaio 2008

le macchinette per deficienti

giudizio: il mondo NON è bello perché è vario.
A premessa, devo sfatare un luogo comune: quasi il 60% di queste minchiate col volante è guidata da un cinquantenne o più, di cui il 48% è un pensionato; solo il 5% dei guidatori è un adolescente. Questo dipende dal fatto che se uno ha sterminato una famiglia in vacanza guidando strafatto contromano in autostrada, centrando il casello di Agrate e facendosi una rettoscopia mentre non guarda la strada, queste cagate a quattro ruote le può guidare comunque.
Ne consegue che, se ne incrociate una, è invariabilmente guidata da: a) un criminale della strada; b) un anziano rinciulito cui hanno tolto la patente per evidente anzianità bavosa, con cappello e otto frecce lampeggianti; c) un quattordicenne che conosce la segnaletica stradale molto meno di quanto non conosca il greco; d) un mona che non è mai riuscito a prendere la patente, nemmeno pagando una scuola guida. Uno normale, mai. La qualità della circolazione e del parcheggio è direttamente proporzionale all'agilità mentale e motoria delle categorie sopramenzionate. Nel 2007 ne sono state vendute 6.234 fino a novembre (fonte), esiste pure un'associazione dei produttori di 'sta roba (ancma), dementi, e costano moltissimo (euri quattordicimila, di media). Il che acuisce la mia sensazione che si tratti di un giochino per rincretiniti abbastanza danarosi.
Potrei anche fregarmene, in fondo, se non avessi l'assoluta certezza che - prima o poi - uno di questi stronzi minus habentes mi centrerà in pieno mentre cerco di passare inosservato in bicicletta. Mi premunisco fin da ora, segnalando che al mio funerale non voglio fiori ma squadre di ultrà metallari armati di chiave inglese che cerchino vendetta per le città. Grazie.

sabato 5 gennaio 2008

iniezione di fiducia?

giudizio: perennemente sull'orlo di una crisi.
Napolitano è stato bravo, nel messaggio di fine anno: certe cose le ha dette senza nascondersi (iddio lo benedica quando parla del senso civico, ce ne vorrebbe a palate); in qualche altro caso ha cercato di spronare le residue forze agonizzanti del belpaese a tirare la carretta ancora un altro po'; ancora, poi, ha cercato di spiegare che no, non siamo un paese in crisi, siamo dinamici in sosta nella prigione del Monopoli, al momento, in attesa della carta "escidiprigione".
Insomma, ha fatto quello che un presidente della Repubblica dovrebbe fare nel messaggio di fine anno.
Mentre Napolitano ragionava di "sentimenti e ragioni di fiducia nell’Italia", di "fermenti positivi", di "mettere a frutto le potenzialità", di "rappresentanze dell’Italia più operosa e generosa", del "nuovo esprimersi della creatività italiana" (l'Italia è un bambino intelligente ma non si applica, il tenore è questo), mi è scappato l'occhio alle sue spalle: era seduto su una poltrona rivestita di velluto blu talmente liso da essere lucido ai fianchi, dove ci sono le spalle, si intravedeva leggermente anche l'imbottitura. Velluto velino, e di brutto. E lui diceva: "Perché il Quirinale, senza eguali al mondo, è – permettetemi di sottolinearlo – tra i luoghi più rappresentativi della storia e della creatività italiana". E io pensavo: "o questo è un nuovo - interessante - corso bulgaro della comunicazione istituzionale (e non è detto che non mi piaccia), o stavolta davvero davvero siamo fottuti". Da quel momento, non ho potuto fare a meno di pensare che lo sfondo fosse una scenografia, che Napolitano fosse in realtà in uno scantinato sgocciolante, che la telecamera fosse in autoplay, che il presidente fosse morto ormai da decenni, che non ci fosse nessuno a guardare la televisione, che nemmeno io, in realtà, fossi lì.
Poi, però, è venuto capodanno, ho fatto il pirla come tutti, ho tirato un cesso e uno SCUD dalla finestra sulla gente di sotto e tutto è tornato a posto. Buonanno a tuslemond, forse ce la faremo a prendere il diploma, a calci nel culo.

 
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