lunedì 27 luglio 2009

Dave Matthews Band Live, Lucca 5.7.2009

giudizio: che figaataaaa

Piazza Napoleone, nella zona degli sventramenti ottocenteschi, fino a domenica 5 luglio 2009 era la piazza meno bella di Lucca. Sarà stato facile montarci un palco di 40 metri, meno facile farci suonare la Dave Matthews Band, dopo 11 anni di assenza italiana (praticamente da sempre). Ecco alcune sose sparse catturate quella sera.

Molti concerti rock li ricordi per quel mix di musica, luci, video e arte scenica spicciola che ti fanno dire "che spettacolo!". Uno show. No, DMB Live a Lucca è stato solo ed esclusivamente musica. Nessuno dei circa 7-8 mila convenuti sembrava aspettarsi altro.

E' bello essere ai concerti, gardarsi intorno e riconoscersi, a prima vista, negli occhi dei tuoi sconosiuti vicini, restituisce una gradevole sensazione di pace.

Il concerto inizia (Don't drink the water) alle 21.15 che è ancora chiaro, e già dai primi 2-3 brani si intuisce qualcosa di speciale: questi qui potrebbero suonare anche la-bella-gi-gu-gì e io non vorrei altro. Ma per fortuna non dobbiamo sperimentare, perché anche le canzoni meno "belle" da studio, qui sono f-a-n-t-a-s-t-i-c-h-e.

Non c'è scenografia, solo le luci, ma niente di che, solo il fondale di un palazzo neoclassico, ben acceso, nessuno sul palco ha niente di speciale (tipo "cosa mi metto stasera?"), semplicemente sono lì e suonano. E si divertono, eccome, sono come bambini! Sembra non aspettassero altro che un pubblico meraviglioso come noi.

Davanti a me una giovane coppia di sposi americani, con bambina di 7-8 anni comprensibilmente indifferente a quello che le succede intorno. Loro le conoscono tutte, cantano, si innamorano ancora.

Finisce, dopo poco più di due ore, la setlist ufficiale e se ne vanno. Ma no, era una finta! Tornano fuori e infilano altri 90 minuti di concerto. In tutto fa praticamente 3 ore e venti di live pause comprese. Ma non di concertino, no, di super-musica, dove ogni brano ha tanta forza dentro che potrebbe essere l'ultimo e così loro suonano, come se fosse l'ultima volta, ma no, si va avanti, avanti ancora, e giù musica.

Quasi 3 ore e mezza durante le quali, senza rendermene conto, non sono riuscito a stare fermo un minuto di fila. Semplicemente impossibile: l'emozione è talmente forte che devi stemperarla "facendo qualcosa", e allora salti e balli, scuoti la testa, alzi le mani, batti il tempo. Perchè se invece mi fossi fermato più di un pensiero, ad ascoltare l'emozione che saliva, mi sarei messo a piangere come un bambino di due anni. Non ero l'unico, e si vedeva.

In qualche modo finisce (Pantala Naga Pampa+Rapunzel), e il silenzio non arriva mai, la musica è ancora tutta dentro. Intorno a noi solo facce spiritate, siamo tutti inequivocabilmente dopati, con la faccia ebete e quell'espressione muta in cui i lati della bocca scendono e il labbro inferiore sale al centro, a dire "che figaaataa". Io, Trivigante e Trofimov non diciamo altro, se parliamo, per ancora un altro paio d'ore. Al parcheggio voglio dire "vado io alla cassa" e mi esce solo "che figaataaa".

Lucca ci regala un paio prati in cui sbrodolare i nostri corpi strafatti e riprenderci, dall'alto delle mura. Che posto fantastico per un concerto: musica e città, tutto vero, tutta roba buona.

Ho capito una legge fondamentale della musica: chiunque dovrebbe avere l'opportunità di andare ai concerti con gli amici più cari e condividere tutto, per almeno 24 ore.

Da quella domenica (sono passate 3 settimane) è solo faccia ebete e DMB Live nelle orecchie. Che figaataa.

[la foto è di DjEnzio. Grazie!]

domenica 22 marzo 2009

Ancora (parole e) musica

giudizio: abbasso Sarkozy, vive la France!
Ho da poco scoperto un e una cantanti-autori francofoni che mi hanno folgorato.
1. Maxime Le Forestier. Canta dai primi anni '70, tra l'altro anche Brassens, e mi piace soprattutto ai due estremi della sua tavolozza: quello tenero-ironico, in cui racconta, per dire, ("Fontenay-aux-roses") cosa pensa spiando ogni giorno le ragazze di un collegio "à l'angle de ma rue", e confessa alla fine di essersi, per la prima volta, "innamorato di tutto un pensionato". E quello politico: corrosivo e impietoso. Ma, ad esempio in "Parachutiste" (tipica, miserrima parabola umana e professionale del "parà"), al riparo dall'enfasi sotto una struttura minimale, uno stile a bassa voce; e con quella parola, parachutiste, ripetuta alla fine di ogni breve strofa con apparente leggerezza, al più blandamente canzonatoria... ma vetriolo puro. (Entrambe in "Essentielles", del 1979).
2. Linda Lemay, canadese del Québéc. Una in cui gli estremi mi sembrano schizzare ad una potenza inimmaginabile. Esempio, il CD "Live" del 1999, che contiene "Chérie, tu ronfles", quasi cabaret su un marito che russa... insieme a "Ceux que l'on met au monde", una roba incredibile, una mazzata da tramortirvi mentre non riuscite a trattenere le lacrime, sul tema della nascita di un figlio con handicap mentale: assolutamente più esaustiva, secondo me, di un trattato sull'argomento. E di temi che hanno l'impatto di un pugno nello stomaco, per come sono affrontati e approfonditi (approccio totale "testa e anima", e poi via, senza freni e senza reticenze), ce ne sono abbastanza da stordirvi anche in "Les lettres rouges", del 2002. Ma pure qua non manca nè l'ironia, nè la comicità, vedi "J'aime la pe^che" ("e" molto larga e altrettanto lunga, da irresistibile presa in giro), o "Bande de dégonflés" e "Bande de dégonflantes", disamina, se così si può dire, di ben circostanziate disfunzioni erettili maschili, e della loro possibile causa. Sempre con deliziosi intermezzi parlati in cui è impossibile restare seri (anche questo infatti è live: un concerto all'Olympia). Poi però, e se siete seduti è meglio... arrivano: "Maudite prière", sull'aborto: mon Dieu j'suis dans la merde, j'ai besoin de vous tout de suite: pourriez- vous me faire perdre le bébé qui m'habite (e poi si scopre che ha già tre figli, ed è depressa...). "La centenaire": j'ai eu cent ans hier, mais qu'est-ce qu'elle fait, la mort..? (come dire: ho compiuto cent'anni, sarebbe ora che la morte arrivasse, non desidero altro, ormai... e ve ne spiego tutti, ma proprio tutti i perchè, mentre vi racconto la mia lunga vita. Morale: "je suis encore avide, mais il n'y a plus rien à mordre"). "Donnez-lui la passion": straziante preghiera della Lemay, ogni volta che sale su un aereo, nel caso dovesse morire quando la figlia è ancora piccola; ovvero la passione come requisito indispensabile per crescere, per vivere... e come darle torto. "Va rejoindre ta femme", e questa è una gragnuola, di pugni allo stomaco: una prostituta lo dice al camionista che è appena stato con lei. Un altro trattato. Che di notevole ha, ancora una volta, l'assoluta e direi esaustiva dovizia di particolari, non importa quanto scabrosi, propri del tema; resi però con assoluta sobrietà, e anche qualche qualità -secondo me- letteraria. "Les deux hommes" parla invece di una coppia di uomini che adotta un bambino, e anche di questa strana e difficile situazione mi pare che i possibili elementi ci siano tutti; ma vissuti, non solo orecchiati o pensati. Lascio per ultime alcune frasi più leggere ma ugualmente significative, credo, tratte qua e là da "Un homme de 50 ans" (quello che lei sta cercando) e tradotte più o meno in italiano: cerco un uomo di 50 anni che ha sognato tutto, e tutto ha perduto... che ha avuto tutto, e tutto ha restituito... un uomo che è già piaciuto, e ha già deluso... che è sopravvissuto... che ha già fumato tutto, bevuto tutto, conosciuto tutto di una donna nuda... un uomo che sa quel che non può dare, e quel che il tempo non può guarire... un uomo che la verità non fa più fuggire... che ha il coraggio di non mentire su quei fottuti dei suoi sentimenti... cerco un signore di 50 anni che non si prende più sul serio... un uomo non troppo solido, perchè tanto nessuno lo è, mai... E per finire non posso tacervi che quest'enciclopedia vivente dei sentimenti, delle voragini e delle risate, oltre che una bellissima voce ha pure un viso incantevole, e degli occhi da... mazzata finale. Acqua freschissima e braci ardenti, insieme.
Grazie Le Forestier, grazie Lemay. E grazie a Michel e a Sophia per avermeli fatti conoscere.

mercoledì 11 marzo 2009

Max Gazzé Live. Bologna, teatro Arena del Sole 9.3.2009

giudizio: superlativo assoluto

Il Massimiliano Gazzè è artista eclettico e bravo, è uno davvero capace sia di musicare sia di scrivere e per quanto mi riguarda L'aratro e la radio è probabilmente il miglior disco del 2008 (di sicuro è quello che ho ascoltato di più).Lunedì scorso a Bologna Gazzè ha fatto partire un mini-tour sperimentale, con uno spettacolo davvero (davvero) bellissimo. Vabbè, c'è la "multimedialità" (alcuni video interessanti e curiosi con cui ogni tanto la musica interagisce), ma il valore del tour è soprattutto nella musica e nella combinazione dei pochi ma superbi elementi: Gazzè al basso e voce, un batterista bravissimo con una batteria completata da decine di cosi da suonare, un tastierista pazzesco che fa di tutto e di più (basi, tappeti, riff, vocoder, e tutto lì), un quartetto d'archi bravissimi e una polistrumentista (glockenspiel e flauti).

Ogni elemento sul palco è quasi autonomo e ben distanziato dagli altri (ah, tra l'altro: basso al centro davanti agli archi, batteria a dx e synth a sin) e anche il suono ne esce poco impastato e volutamente individuabile (vedi qui). La batteria ha sempre una potenza incredibile, il basso ovviamente c'è (ed è meraviglioso) ed è lui che costruisce tutta l'armonia, gli archi sostituisccono (e bene!) le elettriche, le basi synth non solo non si fermano mai, ma portano la voce dove a volte non arriva, e trasfigurano i pezzi, li espandono, rendono possibile un mondo immaginario che si sviluppa tutto lì, in pochi metri di palcoscenico di teatro. Ottimo l'uso delle luci, molto presenti ma mai stridenti. Un'acustica da sballo. Perfetta la sequenza di brani (purtroppo sono pochini, per stessa ammissione del simpatico e affabile Gazzé: devono ancora provarne molti), che disegna un percorso ben costruito e calibrato, che inizia con armonie fluide e ritmi lenti (L'ultimo cielo, Raduni ovali) per esplodere in un post-punk elettro-acustico (vuol dire un cazzo: Favola di Adamo ed Eva, Una musica può fare) pieno e potentissimo. C'è spazio anche per tre brani in solo del grande Megahertz (l'uomo synth), belli e potenti. In uno un'affascinante voce bambina dice "C'è qualcuno qua fuori. Mi porti un bicchier d'acqua?" e lui risponde "E' contaminata!".

Le invenzioni del Gazzé e dei suoi musicisti, riservate al tour e che nei dischi non si trovano nemmeno lontanamente, sono infinite e sublimi, ce n'è sempre una ad ogni angolo. E alla fine del concerto tutto puoi pensare, tranne di aver sentito una qualsiasi "esecuzione" degli stessi brani che già conosci: al contrario, ricordi solo un grande spettacolo fatto di musica. E niente più. Musica pura, perfetta e irripetibile. Max Gazzè è un genio assoluto e questo spettacolo lo conferma.


Sarà anche a:  28 marzo 2009 MILANO (Teatro Ciak). 4 aprile 2009 BARLETTA (Paladisfida Borgia).  6 aprile 2009 FIRENZE (Teatro Puccini).  18 aprile 2009 ROMA (Auditorium Conciliazione).Vai a vederlo, costa poco e ne vale assolutamente la pena (mi ringrazierai). Ora ti saluto è tardi vado a letto. Quello che dovevo dirti io te l'ho detto.

mercoledì 25 febbraio 2009

I Tardigradi

giudizio: dell'inutilità dell'umano affannarsi
I Tardigradi sono degli "invertebrati protostomi celomati", ovvero degli animaletti grandi tra 1 e 15 decimi di mm. Non hanno apparato respiratorio, quello digerente è molto semplice, il loro sistema nervoso è basato su pochi gangli, e percepiscono il mondo esterno attraverso alcune cellule fotosensibili, e altri peduncoli fannno da organi tattili e chemiorecettori. La loro apparenza è abbastanza orrida (per approfonddire: http://www.tardigrada.net e http://tardigrades.bio.unc.edu/), ma non siamo qui per giudicarne l'aspetto esteriore, perché come scoprirete leggendo, le loro doti vanno molto oltre! I Tardigradi Sono stati congelati a -20° dallo scopritore, Lazzaro Spallanzani, che nel 1776 si stupiva di come alla fine del processo riprendessero vita. Ma poi si è scoperto che questi animaletti sono abituati a risvegliarsi dopo anche 120 anni passati nel permafrost, mica bruscolini... Così nel 1950, quando le capacità refrigeranti sono diventate maggiori, Paul Bequerel li ha tenuti per diversi giorni a -200°, e poi nell'elio liquido a -270°. Alla fine tornavano, tutti, vispi come prima.
Hanno provato a disidratarli completamente, cioè li hanno "liofilizzati". e tenuti per qualche anno lì, ma niente, appena gli si dà un po' d'acqua ecco che si riprendono. Non c'è verso: non muoiono.
Pertanto ci ha provato Raoul-Michel May. Per vincere la guerra si è messo d'impegno e li ha bombardati con un cannone a raggi X, con una dose (570.000 rad) 250 volte superiore a quella letale per qualsiasi mammifero (2.000 rad). Niente da fare, sempre vivi. Fino a quando Kunihiro Seki ha detto basta ed è riuscito a "schiacciarli" (meglio sarebbe dire "ipecomprimerli") con una pressa, a qualcosa come 6.000 atmosfere di pressionoe. Ma questi stupidi organismi pluricellulari vivivono normalmente anche a 6.000 metri nelle profondità oceaniche, a 600 atmosfere. Ma 6.000 sono un'enormità, è come se Maiorca fosse tornato vivo e arzillo dalla fossa delle Marianne (11Km). Ancora niente di fatto, nonostante le 6.000 atmosfere vincono loro: vispi come prima (si fa per dire: sono stati così battezzati da Spallanzani perchè molto lenti nell'incedere). Ok. Ora ci avete rotto, maledetti tardigradi! E così è nato il piano più diabolico. Altro che "esperimento scientifico": si è trattato dell'ultimo definitivo tassello necessario per capire come poter ucidere questi organismi, una "soluzione finale". Perchè apparentemente non esistono cause esterne in grado di annientarli. E così li abbiamo (gli scienziati dell'università Kristianstad) disidratati, messi su una navicella spaziale (la gloriosa FOTON-M3), e una volta in orbita li abbiamo buttati fuori. Nel vuoto cosmico, vuoto pressoché assoluto. E per di più, li abbiamo lasciati là fuori come tanti piccoli Major Tom per 10 giorni, perfettamente esposti alle radiazioni solari (senza creme filtranti o atmosfere terrestri di sorta a proteggerli: mille volte peggio che all'equatore). Immagino sia chiaro in quali condizioni abbiamo dovuto portare questi alieni per poterli sconfiggere. E infatti sono morti. Finalmente, doktor, abbiamo dimostrato che nessun animale (muschi e licheni si) riesce a vivere nello spazio! "Herr Professor... abbiamo un problema..." Reidratati con una banale goccia di acqua, tre esemplari della specie Milnesium tardigradum sono "sopravvissuti". Non solo, una volta risvegliati hanno pure ripreso a riprodursi normalmente. Come se niente fosse... beati loro
Questi esseri non hanno il dono della resurrezione (che pare sia attribuito invece ad una medusina già scoperta da un italiano 10 anni fa), ma sono portatori di una dote ancora più ammirevole, secondo me: il dono di fregarsene di tutto quello che viene inflitto loro. E' molto più di un security muscoloso con la maglietta "Non rompermi i coglioni", è come una versione zen di Superman ridotta a un mm di lunghezza. E alla fine i tardigradi dimostrano con la loro banale e neutra esistenza l'inutilità della ricerca (desiderio tutto umano) dell'annientamento di altri esseri viventi.

giovedì 19 febbraio 2009

il numero 23.

giudizio: verovero.
Nel film, Jim Carrey trova un libro che svela i poteri misteriosi del numero 23, che si annida ovunque e condiziona la storia, la vita, i gesti e i pensieri degli uomini. Il protagonista legge il libro e flippa del tutto, scoprendo che i cromosomi umani sono 23 per ogni genitore, che il suo numero di matricola in ospedale è 85307: 8+5+3+0+7 = 23, che guarda sempre l'orologio alle 11:12 (11+12 = 23) e così via. Va giù di testa, tenta di assassinare qualcuno, scopre che suo padre era di Cosenza e che nei pressi di casa sua non c'è nemmeno un fornaio comodo.
Ma che stronzatona, mi son detto.
Poi, nei giorni successivi, ho riflettuto un po': 23 è la mia età, come 23 è il mio voto di maturità. Coincidenze, mi son detto, non spaventarti. Poi, però, è andata sempre peggio: ho contato i miei capelli e sono 23; ho una Renault 5, cioè 2+3; il mio codice di avviamento postale è 00153, ovvero 23 più centotrenta; Barack Husein Obama è composto di 6+6+5 lettere, cioè 23; pasqua sei anni fa è caduta il 23; io una volta ho portato il 23 di scarpe; oggi è il 19/2/2009, cioè 19+2+2+9=32, ovvero 23 al contrario; la mia fidanzata ha 92 anni, cioè il quadruplo di 23; la mia radio stamane era sintonizzata sui 23mhz; sei io avessi altre tre dita, ne avrei 23; per andare in stazione, devo prendere prima il 14 e poi il 9: 23, ovvio. E continua così, senza fermarsi. State attenti.
Ora vivo nel terrore.

martedì 20 gennaio 2009

Yes, we can. Si, noi cani

Giudizio: dalle stars alle stalls
Benvenuto, Mister President. Qualcosa è cambiato davvero (speriamo continui), ma che emozione... Inrecensibile.
La notizia è che dopo che il milione e mezzo di persone se ne sono andate, smontando il palco del giuramento di Obama davanti al Congresso è stato ritrovato un appunto del nuovo Presidente degli Stati Uniti (non si capisce se destinato al discorso o al programma) che vi riporto:
"[...] pride and responsability of the United States: the first goal is to restore Democracy and Justice:
1. Close Guantanamo detention camp
2. Troops out of Iraq
3. Invade and occupy Italy"

mercoledì 12 novembre 2008

Il Premio Chiara

giudizio: un gioiello da rivendere?
"Nella nostra piccola città, allora ancora più piccola di oggi ma tanto più gradevole e umana, al tempo in cui cominciavo a viverci per un numero imprecisabile ma ormai stragrande di anni, cioè intorno al 1936, viveva già il commendatore Adamo Chiappini, un tenore in ritiro che i competenti di opera lirica ricordavano come una promessa, in parte mantenuta, del bel canto italiano". E' l'incipit di "Le corna del diavolo", uno dei tipici racconti di Piero Chiara: il lago di Como, il biliardo, la lirica, le storie e le figurette di provincia, un adulterio e qualche peccato veniale sono gli argomenti ricorrenti di molti dei suoi racconti. E il racconto breve, amaro, nostalgico e un po' stralunato, è la misura di Chiara, come lo è di molti suoi contemporanei e conterranei, penso a Buzzati per esempio o a un versante di Calvino.
Poco dopo la sua morte, il comune di Varese organizzò un concorso letterario a lui intitolato e a sua memoria, concorso che vive e vegeta tuttora. Sebbene il comitato d'onore del premio sia piuttosto infarcito di bauscia e nobilazzi locali (Mondadori, Albertoni, Missoni, Archinto, Crespi, Panza di Biumo eccetera), il fatto che il concorso preveda una giuria popolare rende onore all'iniziativa e alla memoria dello scrittore. Tra i vincitori del passato segnalo Piumini e Lodoli.
In generale, poi, i premi letterari hanno un significato di per sé se, uscendo dai salottini mondani intrisi di liquorini, riescono ad aiutare autori validi ad emergere e, soprattutto, a campare con dignità e un poco di soddisfazione. Per questo motivo, l'istituzione di una "sezione Giovani" nel 1998 sarebbe da salutare con favore. Sebbene scorrendo l'elenco dei passati vincitori in erba io non riesca a scorgerne uno che, in qualche modo, sia stato assistito successivamente da fama planetaria, un premio ai giovani scrittori trova significato anche nell'operazione insita, ovvero nella promozione di quell'attività a basso costo e ad alta intensità che è la scrittura.
E qui giungo alla doglianza del caso. Edizione 2008, sezione Giovani: primo premio, andato accidentalmente a uno scrittore con la "o" finale, uomo-masculo, un gioiello "DoDo" Pomellato. Secondo premio, un mini Hi-Fi. Terzo, una bicicletta. Quarto una valigia trolley, quinto e sesto una macchina fotografica, forse digitale forse no.
Ora, vivaddio: sebbene - ne sono conscio - sia sempre possibile rivendere un oggetto per ottenere un qualche grado di pecunia da reinvestire, non riesco proprio a comprendere un riconoscimento offerto a giovani scrittori che si manifesta in gioielli, valigie o amenità da anziani-che-cercano-un-regalo-giovane. Un tipo di gratificazione nord-imprenditoriale, immagino. E orrendamente paternalista, roba da tirargli il "DoDo" in testa.
Di certo, non riesco a immaginare la faccia del vincitore di quest'anno (sempre con la "o" finale) mentre riceve un gioiello "DoDo" Pomellato a testimonianza del suo valore e del suo sforzo come giovane scrittore. Dico io, una penna, tre risme di carta, un computer portatile, un'enciclopedia, sei dizionari, un abbonamento a una rivista del settore, una serata con Marco Lodoli, insomma non era possibile trovare qualcosa di più consono, inerente e utile? Anche una bella busta con la grana contante, forse, poteva andare, con l'invito - ovvio - a non berseli (risata dei bacucchi premiatori tutto attorno). No, invece no: un gioiello, uno stereo, una valigia. Il che, tradotto, significa grossomodo: scrivete per guadagnare e, se vi riesce, quando avrete via qualche soldino, compratevi un gioiello, uno stereo, una valigia ancora più grossi. Scrivere è un grazioso passatempo e, come tale, degno di ricompense voluttuarie. Per il lavoro vero, suonare i campanelli dei capannoni in Brianza.

giovedì 30 ottobre 2008

Vittorini e Rigoni Stern

giudizio: a buoni maestri servono buoni allievi.
Nel 1951 Rigoni Stern faceva l'impiegato all’Ufficio imposte del catasto di Asiago, Vittorini dirigeva la collana "I Gettoni" di Einaudi. Si incontrarono e fu il secondo a convincere il primo, illetterato ritroso, a scrivere i propri ricordi della campagna di Russia.
Rigoni si mise a scrivere mentre Vittorini lanciava alcuni giovani promettenti. Finita la prima stesura, Rigoni prese il treno da Asiago per Torino e portò il manoscritto a Vittorini. Vittorini glielo fece riscrivere da capo. Rigoni tornò indietro, lo riscrisse e tornò a Torino. Vittorini glielo fece riscrivere. E così una terza, una quarta, una quinta volta. Quante volte Vittorini fece riscrivere a Rigoni "Il sergente nella neve"? Otto. Dico: otto.
Rigoni pensò molte volte di lasciar perdere, non capiva bene l'insistenza e la cocciutaggine di Vittorini, forse aveva sbagliato lavoro, persona o casa editrice. Però riscrisse ogni volta il testo, un contadino di Asiago che ha fatto la Russia non è uno che si ferma di fronte alle prime difficoltà. Ma ancora non capiva fino in fondo dove Vittorini volesse andare a parare. Nel 1953, finalmente, Einaudi pubblicò l'ottava stesura de "Il sergente nella neve", vista, rivista, discussa e stravolta ennesime volte. Fu un successo. Ma questo non importa, fu solo allora che Rigoni comprese la cocciutaggine di Vittorini: ora era diventato uno scrittore. Uno scrittore vero, aveva imparato la lezione. A buoni maestri servono buoni allievi.
Cosa fece lo scrittore Rigoni a questo punto? A parte un piccolo episodio, non scrisse più nulla fino alla morte di Vittorini. Non era più un allievo.

venerdì 17 ottobre 2008

I tortellini bolognesi

giudizio: indescrivibile. Perciò ne scrivo
Non succede spesso di pensare "Cazzo, per 30 anni ho avuto un pregiudizio terribile e mi vergogno, come proverò vergogna per chi continuerà a pensare le stesse cose che pensavo io".
I tortellini. Un quadrato di pasta all'uovo con dentro un quadratino di ripieno a base di carne (di quest'ultimo sono infinite le varianti, una per ogni famiglia, ma di base dentro c'è della lonza di maiale, del prosciutto, della mortadella).
Esistono in due versioni, sostanzialmente: al sugo o in brodo. Al sugo sono quelli che per tutti noi sono sempre stati i tortellini, fondamentalmente confezionati (Rana, coop, Buitoni, tutti buonissimi, insomma, normali).
In brodo non li vuole praticamente nessuno, se non il cugino un po' sfigato o il nonnino di turno, che li mangia nel brodo di dado stracotti e disfati (come all'ospedale). Ecco perchè quando te li propongono in brodo pensi che faresti di tutto pur di non mangiare quella roba triste. Quando proprio non riesci ad evitarli, prima bevi il brodo, poi cerchi di condirli in qualche modo (ovviamente, ci versi sopra la formaggera del grana e abbondante pepe. Li ricondisci asciutti). No, che poi quelli "asiutti" (col ragù, al sugo di pomodoro, burro e salvia, o con pancetta e cipolla) sono tutti buoni. Seriamente, sono più che gradevoli, altro che! Ogni tanto ne hai proprio voglia. Niente tortelli, niente ripieno di zucca, ricotta e noci, ricotta e spinaci, no: carne. Parentesi: quelli panna-e-prosciutto-piselli-e-qualcosaltro no, quelli sono davvero terribili... Vanno bene a mensa e, se proprio non hai alternative, al selfservice...
Poi arrivi a Bologna, ci abiti 5 anni, li ignori così a lungo (appunto: beatamente) e una sera pensi va bene, proviamoli. Trattoria da Valerio in via Avesella 10 (per noi è praticamente il tinello, ma sotto casa. Ambiente più che famigliare: famiglia). E vai: "Per me i tortelini". L'ho detto. Voglio provare. Lo so: non li mangio in brodo da almeno 12 anni (li preparò mia zia). Ovviamente i tortellini sono, per chi non sa, fatti in casa (da una "Sfoglina", o dalla "zdora") e sono, ovviamente minuscoli (per chi sa: "al mignolo").

Che, chiaro, a Bologna, per un Bolognese, per Valerio, i tortelini sono (ovviamente) SOLO in brodo. Banalmente, non ne esiste una versione asciutta. Punto.
Ora, è impossibile descrivere una pietanza sublime. Sarebbe riduttivo e falso. E' anche difficile descrivere come ci si può sentire mentre si gustano. Ma è comunque facilissimo constatare che tutto quello che, comunemente da non bolognesi, si pensa a proposito dei tortellini-praticamente-solo-asciutti è assolutamente, inequivocabilmente, davvero sbagliato, anche se lo pensavi proprio tu.

Per la cronaca, il vero uomo bolognese si distingue perchè se gli dai da mangiare dei veri e buonissimi tortellini in brodo dice sempre: "Buoni, davvero buoni. Però quelli che fa la mia mamma..."
Che io possa avervi ospiti una sera a cena da Valerio, per vedere la vostra espressione incredula smontare i pregiudizi di un'intera civiltà sbagliata. Quella non-bolognese.
Per capire quanto contino i tortellini e chi li sa preparare, per i bolognesi, suggerisco di sfogliare (he he) la proposta di legge per la valorizzazione e la promozione della "sfoglia emiliano-romgnola" e del mestiere di "sfoglina/o"
http://www.grillini.it/show.php?2782

giovedì 16 ottobre 2008

I vicini di casa

giudizio: una torta avvelenata.
I vicini di casa sono, invariabilmente, dei rompicoglioni. Vuoi perché ascoltano musica etnica, o perché hanno orari balzani, o figli lamentosi, o automobili cafone, oppure perché fanno il bucato di notte o perché in casa stanno comodi con gli zoccoli olandesi. In pratica, perché esistono.
Secondo un ovvio principio di reciprocità, chiunque di noi è vicino di casa di qualcun altro, motivo per il quale chiunque di noi può essere ascritto alla categoria dei rompicoglioni. Perché a me piace ascoltare l'hard rock a tutto volume, cucinare molti quintali di cavolo e mettere la posta religiosa che ricevo nelle cassette altrui. Mi esprimo quasi liberamente, io non dò fastidio.
Non c'è scampo, da un punto di vista complessivo siamo tutti dei rompicoglioni, seppur con differenze non lievi. Nonostante alcune persone siano più che civili, l'eccessiva vicinanza crea danno: non sono certo che la visita iniziale con tanto di torta appena sfornata sia una dichiarazione di cortesia, quanto piuttosto una sarcastica dichiarazione di guerra futura. Prima o poi verrà l'assemblea condominiale. Visti dall'esterno, dunque, siamo una specie, tutta, che tende con una certa pervicacia a devastare l'ambiente circostante, persone incluse.
Soltanto in virtù di queste spiegazioni è possibile comprendere appieno l'iniziativa dell'Accademia russa di Scienze: poiché è stato scoperto di recente Gliese 581c, un pianeta molto simile alla Terra, sufficientemente vicino per essere considerato contiguo, dotato forse di aria e acqua, il professor Zaitsev - attenzione: a nome nostro - ha ben pensato di cominciare a inviare trasmissioni radioastronomiche in direzione dei Gliesiani, ammesso che esistano, informandoli delle nostre attività e caratteristiche più svariate, per esempio inviando immagini della campagna elettorale americana e spiegando che noi abbiamo un naso e il sedere tagliato in due. Le trasmissioni arriveranno a destinazione tra vent'anni e, secondo il tizio, si tratta di un «approccio democratico alle comunicazioni con gli extra terrestri».
Eccoci giunti, dunque, all'equivalente galattico della torta di buon vicinato: non invitati infestiamo il citofono, la cassetta di posta e il telefono dei nostri vicini, proponendo loro le nostre belle iniziative, facendogli vedere le foto dei figli e mostrando la nostra innegabile simpatia. Poiché loro non si fanno avanti, i timidoni (cito: «c’è sempre la possibilità che fra le varie presunte intelligenze extraterrestri prevalga un atteggiamento passivo, di preferire che per primi si espongano gli altri, piuttosto che manifestarsi subito»), noi siamo più disinvolti. E chi se ne frega se non potranno più ascoltare la loro radio preferita perché occuperemo le loro frequenze, non ci importa.
Siamo troppo simpatici, noi, per frenarci. Vicini di casa, appunto.

martedì 7 ottobre 2008

La scelta della sede.

giudizio: oltraggioso.
Che si sia un governo o un'industria, un partito, una casa di moda, un dittatore, un geometra arricchito o un ente statale, la scelta della propria sede risulta essere decisiva per l'immagine e il significato che si vuole dare all'esterno della propria azione. La cosa è più che nota, ai consci e agli inconsci, tant'è che nessuno si sottrae alla ferrea legge: una sede ammirata, riverita, imponente il giusto, trasmette direttamente a chi la sede la occupa ammirazione, riverenza, imponenza, garanzia di buona attività, quale essa sia. E non a caso, ancora, si sceglie spesso prima la sede del nome, o prima la sede di tante altre cose, solo apparentemente più importanti.
Eccezionali alcuni casi esemplari, nei quali la sede scelta è diventata sinonimo di ciò che vi sta dentro: La Santa Sede, sede per eccellenza e inarrivabile, o il Cremlino, il Pentagono, la Casa Bianca e, nel suo piccolo, il Quirinale. Oppure, in politica o in affari, Mirafiori, Piazza del Gesù, Botteghe Oscure, Palazzo Marino, l'8 di Downing Street e così via. In altri casi, la scelta della sede fu talmente azzeccata da riversare sugli occupanti caratteristiche virtuose non necessariamente meritate: ad esempio, il palazzo di vetro dell'ONU, oppure la sede lacustre dell'ENI all'EUR, simboli di modernità e di efficienza. E poi che dire delle sedi diventate leggendarie nell'immaginario collettivo? La Bat-Caverna, per esempio, o gli studi della EMI ad Abbey Road, con tanto di mela, oppure ancora la Moneda di Allende a Santiago, e che dire del deposito cubico di Paperone o della reggia di Versailles? Nel suo piccolo, anche il modesto ma significativo contribuente sceglie di costruirsi una sede adatta alle proprie ambizioni ed è per questo motivo che sorgono le villette neo-geometra su collinetta che nasconde parcheggio e taverna, a fianco del capannone dell'aziendina, nel panorama omogeneo della pianura padana. Insomma, scegliersi una sede adeguata è il primo passo per un successo durevole e robusto, ricco di gratificazioni e di entrate pecuniarie, non c'è dubbio.
E' alla luce di tutto questo che va vista la decisione di D'Alema di posizionare la sede della sua neonata RED TV (canale 890 di Sky, guidata dalla baledda Annunziata) nel seminterrato di Palazzo Grazioli a Roma. Il riverbero dei piani superiori, sia in fatto di politica che di televisione, garantisce la riuscita dell'impresa nei piani bassi. Bravo a D'Alema che ha compreso l'importanza di avere una sede adeguata alle proprie ambizioni. E poi potrà sempre chiedere consiglio all'inquilino del piano di sopra, oltre allo zucchero.

domenica 28 settembre 2008

A destra della cultura

giudizio: il fascista, la scrittrice e il cantante.
Passeggiavo sbadatamente per Roma una sera, quando sono stato rapito da luci e suoni provenienti da un colle. Giunto là, ovvero sul Campidoglio illuminato a gran gala, ho potuto assistere a un incosciente discorso di celebrazione in onore di Oriana Fallaci, tenuto ovviamente dal primo sindaco fascista di Roma. Ho così potuto apprendere che l'intera serata era dedicata all'iraconda Fallaci e il repertorio degli interventi (due) può essere così riassunto: otto sostantivi "coraggio, libertà, eredità, libri, scrittura, scrittrice, giornalista, Italia" e un solo aggettivo, "straordinario", declinato a seconda del genere. Il disagio e l'impreparazione erano palpabili, si celebrava postumo una specie di tumulo imbiancato riferibile all'area culturale di destra, ovvero un obelisco storto nel nulla del deserto, senza che si disponesse di qualche strumento apposito, per esempio qualcuno che avesse letto 'sti benedetti libri. Era un elogio vago e confuso, monoaggettivato, che potrebbe calzare ai caduti papalini di Porta Pia come alla Fallaci o a Tatarella. Magari si parlasse del camerata Ramelli. Esaurito il faticosissimo discorso, Alemanno si è seduto per gustarsi il fulcro della serata, un concerto-recital dell'unico cantante disponibile sulla piazza a celebrare la Fallaci: Amedeo Minghi. Califano sembrava oggettivamente una scelta poco culturale. E Minghi, per il quale non corre alcuna differenza tra la sagra del fagiolo lucano, San Remo e la Fallaci, ci ha dato dentro, con il medesimo repertorio di sostantivi e aggettivi, a ricordare la grandezza della stessa. Purtroppo, però, non avendo mai scritto nulla di adatto alla serata, ha dovuto ascendere specchi e cime impervie, pur di cantare le sue canzoni: "ho scritto questa canzone settantacinque anni fa, però è un po' come se l'avessi scritta per Oriana, perché parla di un'aquila che punta la preda, esattamente come faceva Oriana con la notizia, la osservava da lontano e la ghermiva con artigli rapaci". Per dire, poi ovviamente la canzone non quagliava per nulla. Alla quinta canzone non congrua, va ben pur il dovere di cronaca, mi sono osservato, io a un concerto di Minghi in una serata in onore della Fallaci: non quadrava e quindi me ne sono andato. Ho osservato un'ultima volta la platea, per fortuna andata semi-deserta, e mi sono allontanato, mentre i pochi si spellavano visibilmente le mani.
Questo è più un racconto che una recensione, lo so, sarebbe facile fare dell'ironia sullo iato tra il contenitore (Michelangelo, Roma) e il contenuto (Minghi, la Fallaci e un po' di fascisti), citare Leopardi e i suoi nani e giganti romani, sghignazzare sull'iniziativa sbilenca e malriuscita e sentirsi decisamente superiori, i fatti parlano da sè. Però resta l'amaro in bocca, una specie di rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, per tutti i desideri non avverati e per la fatica sprecata, per chi si è tanto impegnato e non ha ottenuto nulla. Anzi, la vicenda intera è beffarda. A dimostrazione, il secondo intervento, tenuto nascosto finora, era di Rutelli, lo sconfitto. Che, in quel contesto, ci stava davvero benino. E il cerchio è chiuso.

venerdì 26 settembre 2008

Della CEI o del significato dei nomi

giudizio: militanza onomastica.
Semplificando, da alcune decadi ormai la CEI risulta essere il braccio operativo dell'ingerenza pontificia nella politica italiana, per voce del suo segretario. Il segretario, appunto, di nomina papale, è il centravanti di sfondamento della politica vaticana, la politica concreta e pragmatica che punta alla parificazione delle scuole cattoliche, all'abrogazione della legge sull'aborto, alla promozione sociale ed economica degli oratori, alla difesa e all'implementazione dei privilegi conciliari e così via. In virtù del proprio ruolo, il segretario della CEI dice ciò che non sta bene che il Papa dica, non ha omologhi che lo contraddicano, utilizza parole e modi da combattimento e, caratteristica peculiare e necessaria, non conosce pudori e cortesie. Se il cardinale Ruini in questo era maestro indiscusso, e il cui nome faceva davvero pensare alle rovine che lasciava dietro di sè dopo i suoi interventi a gamba tesissima, il suo successore Bagnasco, un incoativo che richiamava più una certa disponibilità alla discussione che i fuochi e le fiamme ruiniane, da questo punto di vista non è stato all'altezza del predecessore.
Ora, se i nomi hanno un qualche significato, il reazionario e conservatore Benedetto XVI ha nominato ieri segretario della CEI monsignor Crociata, predestinato evidentemente a un ruolo in prima fila nella sempiterna lotta tra potere temporale e spirituale, tra cattolicesimo e resto del mondo. Nomen omen, pare evidente che gli interventi del neo-nominato saranno contraddistinti dall'elmetto in testa e da una certa propensione alla trincea militante, è bene non attendersi nulla di meglio. E' lecito un risolino per la scelta comica in ragione del nome, come si potrebbe fare un risolino del Manganelli capo della Polizia, ma esaurita la minima vis comica è bene attrezzarsi al peggio e serrare le fila, in attesa dell'ennesima Crociata.

lunedì 1 settembre 2008

La coca cola

giudizio: in 1996 battute.
Esiste un fil rouge che lega il cartello colombiano della cocaina e il Parlamento Federale Indiano, la CIA e i nutrizionisti, Vasco Rossi e i sindacalisti guatemaltechi, le fortune dei Bush e lo scandalo Telecom-Sismi, un fantomatico produttore in Indiana e l'osteoporosi femminile? E ancora: come narrano leggende ormai secolari, esiste un prodotto che, allo stesso tempo, smacchia il sangue dalle magliette, scioglie un'intera bistecca di manzo, toglie il chewingum dai capelli dei pargoli, neutralizza il veleno di una medusa, leva la ruggine dai bulloni ossidati? La risposta, singolare e laconica allo stesso tempo, è: "Sì, la Coca Cola" e si intenda qui sia la bibita gasata sia la perfida multinazionale. Ed è in questa sofisticata distinzione, l'innocente bevanda dalle bollicine sbarazzine da una parte e la fabbrica malvagia che, si dice, disfa governi e acquisisce droga dall'altra, che sta tutta la magia: nessuno, mai, riuscirà a colmare la distanza, concettuale e concreta, tra la prosperosa pin up che invita alla molle digestione e il distributore automatico che operai desindacalizzati hanno portato in luoghi in cui l'uomo bianco nemmeno si sogna di andare. Troppo sovradimensionata l'azienda per non incappare in soprusi e reati di varia natura, troppo diffusa e accessibile la bibita per non finire, almeno una volta, sul tavolino di una festa delle medie. E se il consumo di Coca Cola è da sempre trasversale, da destra a sinistra senza distinzione, anche il rifiuto di essa, simbolico e ideologico, non conosce frontiere: dall'invito a consumare l'italico e fascistissimo chinotto ai CCCP, che le dedicarono ironicamente la copertina di un album doppio. Sebbene i trionfi dei gasati anni Ottanta siano un ricordo lontano, il primato non è in discussione: impossibile per i rivali spodestare la Coca Cola, tuttora insostituibile persino in alcune discipline sportive, come testimoniano soddisfatti i partecipanti al Campionato italiano di rutto parlato e cantato di Reggiolo.

lunedì 25 agosto 2008

Maratoneta

Giudizio: inarrestabile
Hai perso.
Non puoi illuderti, non ci sono altri finali, non inventare, hai perso.
Hai iniziato a perdere quasi due ore fa. Hai iniziato perdendo la sensibilità. Prima alle dita dei piedi, poi agli stinchi, ora anche alle dita delle mani. Non sentire il dolore ai piedi può essere un vantaggio, può portarti più avanti, più degli altri. Poi hai perso anche il ritmo, il glicogeno, la capacità di sentire il tuo respiro, hai perso la capacità di capire il tuo battito, di interpretare il significato vero delle letture sull'orologino che hai al polso, o quello che ti dice qualcuno (un volto amico?) dal lato del percorso. Realizzi che qualche minuto fa (o qualche quarto d'ora fa) hai anche perso il rifornimento...
Perso. Ora sei davvero perso. Non sai nemmeno dove devi davvero andare. Avanti, ancora avanti, è l'unica cosa che sai fare, adesso, da sempre. Correre.
Un suono ovattato che dovrebbe venire dalle tue orecchie ti sta riempiendo la testa, senti solo un brusio sordo, un tuono lontano dentro di te, come un temporale che non nasce mai, e non vuol nemmeno morire, neppure in mezzo alle voci lontane del pubblico che ti scorre a un palmo, di fianco, apparentemente divertito (?) dal tuo passare. Non senti più nulla, solo questo ovattato silenzio ammutolito, unico sintomo della tua trance agonistica.
Il vuoto, dentro e fuori da te. Vuoto. Corri. Senza sensibilità.
Poi si fa fresco. Ombra, tanta ombra. Saliscendi. Silenzio. Più silenzio. Singole voci, di qua e di là, ma manca il pubblico. È buio. La fine.
Andato. Sei finito, in un tunnel che ti porterà al coma. E lo stai capendo solo ora... Sei perso. Per sempre.
Dietro il tunnel uno stadio gremito, pieno di persone stipate fino all'orlo, sta aspettando in un silenzio irreale, sospeso e rispettoso, l'ingresso del primo maratoneta, per accompagnarlo nel suo ultimo giro di pista. 500 metri. Gli ultimi cinquecento metri.
Al suo ingresso, il silenzio è al culmine, puntiforme. E fatti i cinque passi in uscita dal tunnel, sulla corsia che porta alla pista olimpica, un boato immane, un'esplosione umana e primordiale rompe quel silenzio irreale.
Ti risveglia, ti dice “no, non sei perso, sei arrivato fino a qui!”. E ti piomba addosso tutto il peso di 42km percorsi metro dopo metro. Un macigno, una mano enorme sembra volerti schiacciare sul tartan, per non farti arrivare alla fine. Proprio ora che manca così poco... Ma l'emozione è troppa. Sei stato insensibile, perso, per decine di chilometri, e ora che ti mancano meno di 500 metri, un banale giro di pista (roba da fighetti dela velocità), questa fresca consapevolezza ti sta facendo rallentare a vista d'occhio. Sei perso, un cavallo scosso, sai che non puoi arrivare alla fine. Hai perso.
Ma in quel boato irrequieto e interminabile trovi (davvero? Ne sei sicuro?) l'ultimo barlume di forza, un alito di vento minimo, che si appoggia su una vela flaccida e ti trasfigura, per farti arrivare, è vero!, davvero alla fine. Colmi quella distanza, un ultimo passo dopo l'altro, e non sai più chi sei: se importasse qualcosa, hai gli occhi a mandorla, la pelle scura, chiara, sei americano, africano, europeo, italiano, etiope, sei il campione, sei uno sconosciuto, hai le scarpe scelte dallo sponsor, corri a piedi nudi, sei lucido, sei fatto, sei un volto noto, sei l'ultimo, sei il primo. Sei uno dei tanti. Sei solo un'emozione immensa.

 
mostri sono passati di qui