domenica 30 marzo 2008

Il packaging dello yogurt

giudizio: croce e delizia
Apri il frigo e prendi uno yogurt. Alla fragola, alla banana, ai cereali, magari magro, o al bifidus-chefacagare, o super-acido che ci metti lo zucchero come da bambino.
Ma prima di affondare il cucchiaino nel delizioso latticino devi superare l'Ostacolo. Aprire il coperchietto, il maledettissimo cappuccio di alluminio. Maledetto perchè, soprattutto se chiude un bicchierino in plastica, non c'è una volta che si non rompa. Non viene mai via intero. Mai.
Ora, va detto che ed è un piccolo capolavoro di minmalismo, il packaging dello yogurt: un contenitore-coppetta di plastica (o, meglio, di vetro), un cappuccio di alluminio che lo chiude grazie a un micro-filo di collante, e poi a due a due, le coppette stanno in un coso di cartone (meglio sarebbe evitare il cartone e consentire di comprare anche 1, 3 o 5 yogurt, magari tutti di gusti diversi e non sprecare carta!). Capolavoro anche di riciclo, perchè ogni elemento se ne può andare in un cassonetto/campana differente e non si butta proprio nulla.
La tecnologia per produrre i cappuccetti di alluminio si è evoluta tantissimo (conosco uno che conosce uno che ha fatto i milioni costruendo queste macchine sofisticatissime), e lo spreco del prezioso elemento è oggi minimo. Bene! Ma perché, dico perchè, o-g-n-i v-o-l-t-a che ne apri uno non viene mai via intero? L'unico modo per riuscirci è farlo con estrema cura, con applicazione certosina e il sangue freddo di un artificiere che disinnesca la bomba (filo rosso o filo nero? è sempre nero il filo). E come l'artificiere, ora che hai finito, sei sudato ma salvo perchè hai vinto tu e la bomba non è esplosa e lo testimnonia il fatto che hai la spoletta in mano, ebbene ora, di sicuro, ti è passata la voglia di mangiarla, la bomba...

giovedì 20 marzo 2008

molti gradi di separazione

giudizio: separazione assoluta dalla decenza.
Giuliano Ferrara, tutto preso nell'orgasmo della sua crociata, scrive con la solita levità che all'ingresso delle cliniche nelle quali si pratica l'aborto clandestino dovrebbe campeggiare la scritta "Abort macht frei", richiamando tetri precedenti. Un lettore (lui sì intelligente, richiamato ieri in prima pagina su il manifesto da Luttazzi) gli fa notare che in tedesco "aborto" si dice "Abtreibung" e che "Abort", piuttosto, significa "latrina". Che la latrina renda liberi è fuor di discussione, come già sapevano Rabelais e Benigni su tutti. Ferrara no. Il commentatore comune, interpellato in merito alle vaccate di Ferrara, risponde che, comunque, "Ferrara è molto intelligente", il che implica che se dice cose immonde ci dev'essere una ragione non secondaria. Suo padre, lui sì che era intelligente, tutt'altra levatura dal volgare figlio che non è talis. Però il luogo comune sulla (presunta) intelligenza di Ferrara resiste, fin dai tempi in cui usciva da un bidone della monnezza. Anche di fronte alle contraddizioni insormontabili: la Chiesa si rifiuta di battezzare i feti deceduti prima del parto, poiché - fatto davvero interessante - non li considera persone. Non c'è vita prima del parto, dunque? E allora?
La volgarità, più che lo scivolone lessicale, mi mette in imbarazzo, mi lascia interdetto senza una replica immediata. Ma il grassone no, non conosce fermate, lanciato com'è alla meta, forte del suo personalissimo senso del giusto e del sacro, cucito su misura. Lui è sereno e, di sicuro, dorme benissimo.
Le parole, per qualcuno, non hanno alcun peso.

domenica 16 marzo 2008

pubblicità progresso

giudizio: il lato nobile delle jene?
Se lo scopo della pubblicità è di influenzare, in modo intenzionale e sistematico, le scelte degli individui in relazione al consumo di alcuni beni e all'utilizzo di alcuni servizi, ne consegue indirettamente che tale scopo viene perseguito a prescindere dal bene o dal servizio promosso, poiché diventano determinanti la tecnica, la struttura e i modi della comunicazione pubblicitaria. Che sono sempre gli stessi, in sostanza, sia che si pubblicizzi profumo per cani o villette a schiera sulla luna, e - in generale - tendono alla semplificazione, appellandosi a pulsioni elementari; estremizzando, Bernanos sosteneva che i motori di scelta della pubblicità sono semplicemente i sette peccati capitali. Non a caso, l'idea futurista di Marinetti, concreta e fascistoide, si adattava benissimo al concetto di pubblicità (sintesi, dinamismo, simultaneità etc.).
Lo stesso tipo di comunicazione pubblicitaria viene utilizzata anche nelle campagne di Pubblicità Progresso, il cui scopo è promuovere della comunicazione sociale in ambito morale, civile ed educativo, senza fine di lucro. Il che farebbe pensare a un nobile scopo e a un nobile risultato.
Ma così non è o, almeno, non del tutto. Pubblicità Progresso non è un sinonimo generico di "pubblicità sociale", ma è il nome di un'associazione (ora fondazione) che raggruppa praticamente tutte le agenzie pubblicitarie italiane, cioè le stesse che fanno comunicazione profit e si occupano di pubblicità in modo tradizionale, tra le quali Publitalia 80 e Sipra (cioè Mediaset e RAI, 90% del mercato pubblicitario). Ne deriva che l'idea di comunicazione e i mezzi espressivi che vengono utilizzati nelle campagne sociali sono sostanzialmente gli stessi utilizzati per vendere caffè o mutande. Ma se la riduzione, la semplificazione, il cliché e il luogo comune vanno benissimo per vendere un'automobile, non vanno altrettanto bene per promuovere comportamenti meritevoli e civili o per fare informazione disinteressata. Per esempio, la pubblicità progresso sull'AIDS del 1987 diceva testualmente "il virus si trasmette attraverso i rapporti sessuali e non i rapporti umani". Complimenti. Ovviamente, più l'argomento è complesso più la riduzione a pubblicità diventa difficile, capita quindi che una mente di pubblicitario, organizzata per vendere lattine di birra e parlare bene della diarrea, corra il rischio di non cogliere la differenza. Oppure, a volerla vedere del tutto nera, fare comunicazione sociale è un buon modo per promuoversi, marketing funzionale per guadagnarsi, di ritorno, contratti profit. Son sempre pubblicitari, in fondo.
In sostanza, recensisco con pollice verso la pubblicità progresso e condanno, insieme e in generale, la semplificazione affidata ai comunicatori, lasciando però un piccolo margine di credito in tutto questo, perché una tantum ci azzeccano davvero. Ecco due esempi: la migliore pubblicità progresso di sempre e una pubblicità progresso del tutto patetica, tra le tante.

martedì 11 marzo 2008

necropoli

giudizio: un libero pellegrino.
Boris Pahor, sloveno di Trieste, novantacinque anni, arruolato nell'esercito fascista, poi partigiano nelle formazioni slovene, internato in vari campi di concentramento, poi scrittore senza remore, forse candidato alle prossime elezioni nel PD. Un simbolo di una scatola cinese di minoranze, uno sloveno schiacciato tra titini e italiani (non brava gente ma fascisti), tra tedeschi e socialisti sloveni. Nel 1966 scrisse, in sloveno, "Necropoli", racconto autobiografico di addetto ai forni crematori, ignorato per più di vent'anni dalla storiografia e letteratura concentrazionaria. A colpevole torto, perché Pahor scrive incredibilmente bene e, a differenza di molti sopravvissuti, va a fondo delle cose, vuole sapere perché, si interroga e offre risposte, non si risparmia e non risparmia nulla al lettore, non risparmia parole e non risparmia sonori schiaffoni. "Necropoli" è il racconto della sua visita da uomo libero a Natzweiler-Struthof, campo di concentramento sui Vosgi, il suo primo campo: i ricordi riaffiorano, osserva i comportamenti dei turisti (due, addirittura, si baciano davanti alle camere a gas) e le proprie reazioni (lui li vede e non si indigna, ci pensa), ricostruisce il passato e, come ho detto, offre spiegazioni approfondite senza fermarsi di fronte a nulla. Uomo perfettamente integro di fronte alla realtà, è ammirevole da ogni punto di vista. E il suo romanzo è un unicum nel genere, non avevo mai letto nulla del genere sull'olocausto, nulla di così criticamente libero, di così approfondito, nulla di così analitico. Ecco, l'analisi è il punto, e proprio perché ragionata e pacata è una lama di rasoio e non lascia scampo. Per quasi tutti i sopravvissuti all'olocausto, la liberazione non è avvenuta con l'uscita dai campi, se non quella fisica. Per quasi tutti, la liberazione dall'orrore non è arrivata mai. Da Pahor, invece, ho imparato come osserva il mondo un uomo davvero libero, che ha resistito su ogni fronte. Sta a Trieste, andiamolo a salutare, è un uomo raro e prezioso.

 
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